TRACCE DI PIACENZA/14

I negotiatores di Asti e di alcune città vicine  (Alba, Chieri, Cuneo, Torino, Vercelli, ecc.), i quali, – negli ultimi anni del secolo XI – stabilirono legami commerciali con la Francia, furono – intorno al 1200 – i principali intermediari fra Genova e i paesi del Nord, e – nel corso del secolo XIII – mantennero costanti rapporti d’affari con le fiere della Champagne e con altri centri del commercio transalpino. A partire dagli ultimi anni del secolo XII, essi furono seguiti al di là delle Alpi, in Francia, nelle Fiandre, nella Germania meridionale, in Inghilterra, da mercanti di Milano, Piacenza, Bologna e (in minor numero) di Lodi, Cremona, Parma e forse Bergamo e Monza.
Di tutti costoro (in mancanza di notizie più precise su Milano) i più influenti furono i mercatores piacentini, i quali per quasi due secoli (dal principio del secolo XII alla fine del XIII), giovandosi della posizione strategica di Piacenza a cavallo delle grandi vie di comunicazione continentali lungo il Po, attraverso i valichi alpini e al di là degli Appennini fino a Genova, costruirono una vasta rete di scambi internazionali con i paesi dell’Occidente e dell’Oriente, diventando una delle principali potenze commerciali d’Europa. In Occidente essi conquistarono una posizione dominante nel commercio per via di terra fra Genova (e Marsiglia) e la Champagne; stabilirono legami con la Francia, le Fiandre, l’Inghilterra e la Germania; assunsero in certi periodi, verso la fine del secolo XIII, un ruolo di guida nella comunità mercantile italiana alle fiere di Nîmes e della Champagne; in Oriente parteciparono alla prima Crociata, operarono in epoche diverse in Africa, Egitto, Siria, Palestina, Armenia (Laiazzo) e Persia (Tabriz); furono tra gli ultimi italiani ad abbandonare gli Stati crociati per stabilirsi a Cipro (soprattutto gli Scotti, il cui raggio d’azione, nel 1301, andava da Famagosta a Bruges).

Ph. Jones, La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. 4: Dalla caduta dell’Impero Romano al secolo XVIII. L’economia delle tre Italie, Einaudi – Il Sole 24 Ore, 2005, pp. 1719 s.

TRACCE DI PIACENZA/13

Scontri violenti tra gli abitanti di Ravenna (…) si ripetevano ogni domenica. Scontri durissimi, quasi all’ultimo sangue: ci si fermava solo al momento di infliggere il colpo definitivo all’avversario: e anche così i morti non erano infrequenti.
Sorge allora subito spontanea la domanda sull’origine di questo uso. Prima di tutto va detto che durante il Medioevo “giochi” del tipo di quello ravennate erano usuali in quasi tutta l’Italia centrosettentrionale, sia nel periodo più antico sia durante l’età comunale (che anzi mostra un infittirsi delle testimonianze in questo senso per il netto aumento della quantità delle fonti disponibili). Le fonti provano la diffusa partecipazione della popolazione, senza distinzioni di strato sociale, a queste zuffe, che avevano nomi diversi, ma che in genere si chiamavano “battaglia” (pugna, battagliola, bellum) oppure “gioco” (ludus). Nel nome, poi, si faceva talvolta riferimento alle armi come elemento di specificazione (gioco o battaglia con i bastoni, le mazze, le clave, gli scudi e così via). Esse si svolgevano in luoghi aperti, ben individuati, spesso fuori delle mura, ai quali è rimasto il nome di “campo” o “prato di battaglia”.
Nel 1090 a Piacenza i combattimenti si svolgevano in un terreno vuoto, compreso fra una chiesa e una strada; altre prove toponomastiche simili vengono, per esempio, da Modena e da Perugia. In quest’ultimo caso il luogo dello scontro è perfettamente documentato (il ludus battaglie, il gioco della battaglia ben noto fin dal Duecento, continuò fino al Quattrocento inoltrato): si trovava sotto l’attuale piazza Matteotti ed era delimitato da un muro.

S. Gasparri, Giochi di guerra. Gli scontri cruenti tra fazioni cittadine, in Storia e Dossier 55, ottobre 1991, pp. 41 s.

 

TRACCE DI PIACENZA/12

La rottura tra Gregorio VII ed Enrico IV non fu immediatamente successiva al decreto sulle investiture: solo che il re mostrò di non tenerne conto, inviando in Lombardia uno dei suoi fedeli, il conte Everardo, che, radunata una dieta a Roncaglia, fece eleggere Tedaldo, suddiacono milanese e cappellano del re, nuovo arcivescovo di Milano – nonostante ancora vivesse il candidato della pataria, già approvato dalla sede apostolica –  e investendo negli stessi mesi dei vescovadi di Fermo e Spoleto, rimasti vacanti, due persone a lui fedeli e sconosciute al papa. Si trattava del rafforzamento e dell’estensione anche all’Italia di quella politica ecclesiastica che si connetteva intimamente per Enrico al problema del rafforzamento della compagine del regno. Alle proteste di Gregorio VII e alle minacce di scomunica e di deposizione, Enrico rispose nel gennaio 1076 con le assemblee di Worms e di Piacenza, dove gli episcopati rispettivamente tedesco e lombardo decretarono la deposizione di Gregorio VII. La replica di Gregorio fu nel concilio romano del febbraio la deposizione di Enrico, la sua scomunica e lo scioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà.
Iniziava così una rottura che, a parte brevi ed effimeri compromessi, sarebbe durata quasi cinquant’anni, rompendo quel mito della concordia e reciproca collaborazione fra papato e Impero, al quale si richiamavano i teorici di una presunta restaurazione carolingia.

G. Miccoli, La storia religiosa. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol. 2: L’Italia religiosa, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, p. 502

TRACCE DI PIACENZA/11

L’idea della presenza di Dio tra i combattenti per la propria città si manifesta talvolta anche nei moduli narrativi usati per salutare i successi della propria parte. Nell’aprile 1175 Federico Barbarossa cerca di conquistare Alessandria, irriducibile al duro assedio, facendo scavare una galleria che passando sotto le mura avrebbe dovuto sboccare nel mezzo della città; aveva dato assicurazione che avrebbe rispettato la Pasqua e invece proprio la mattina della santa domenica egli attaccò battaglia: «Ma Dio combatté per i cittadini, e tutti coloro che si trovavano nella galleria e sulla torre di legno… morirono, e la torre fu bruciata». Nel giugno 1215 gli Annales placentini registrano il fallimento di una spedizione cremonese contro la loro città «divina potentia et civium Placentiae protectione», come nel luglio dello stesso anno un’altra incursione cremonese fallisce «divina misericordia et virtute atque auxilio militum et sagittariorum».

G. Miccoli, La storia religiosa. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol. 2: L’Italia religiosa, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, p. 600

 

TRACCE DI PIACENZA/10

Un’altra complicazione, nella lotta di classe del primo Duecento, fu la frequente presenza di nobili nella direzione del movimento di popolo. Ma ciò era avvenuto già nel secolo XI a Milano, al tempo di Lanzone, capitaneus in guerra contro i capitanei, e significava soltanto la necessità per la popolazione non nobile, nel corso della lotta, di scegliere capi dal ceto militarmente più esperto, sfruttandone le discordie interne. Del resto il contrasto fra le fazioni nobiliari, in gara per il predominio politico, non poteva non intrecciarsi con il conflitto di classe: che esprimeva una tensione sociale, ma si poneva anch’esso su un piano schiettamente politico. Ciò anzitutto in quanto l’opposizione alla classe dei nobili era alimentata dall’esigenza di porre un freno alla violenza appunto, con cui le consorterie contendevano per conseguire il potere nell’organismo comunale: basti pensare agli anni di guerriglia, di barricate, di incendi che afflissero Firenze dal 1177 al 1179, quando la consorteria degli Uberti insorse contro la lunga prevalenza della coalizione capeggiata dai Donati. D’altra parte, questa volontà popolare di presenza politica, intesa a costringere i nobili a metodi nuovi nella lotta per il potere, si complicò normalmente con una precisa richiesta di partecipazione effettiva al governo cittadino e di spartizione equilibrata delle cariche comunali, e si tradusse talvolta in una integrale, pur se ancora provvisoria, conquista dell’organismo comunale da parte del popolo: come avvenne a Piacenza nel 1220, quando i milites abbandonarono la città, tornandovi più di un anno dopo per l’intervento pacificatore di un legato papale.

G. Tabacco, La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’impero alle prime formazioni di Stati regionali, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol.1: La società medievale e le corti del Rinascimento, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, pp. 184 s.

TRACCE DI PIACENZA/5

La trasformazione da mercante in prestatore si realizzò gradualmente attraverso la consuetudine con il cambio della moneta da parte dei mercanti lombardi operanti nelle fiere; l’eccessiva diffusione del diritto di battere moneta, legata al particolarismo politico, aveva infatti provocato una circolazione molteplice di monete di valore e corso diversi e oscillanti, sicché negli scambi internazionali occorreva una particolare competenza per assegnare a ciascuna il giusto valore di mercato. Astigiani, chieresi e piacentini si specializzarono in questa attività, molto remunerativa per chi fosse attento alla speculazione, e ottennero un primo riconoscimento ufficiale come “cambiatori”. La disponibilità di contante in diverse valute consentì loro poi di poterlo offrire sul mercato finanziario e di metterlo cosi in circolazione sotto forma di prestiti, nonostante i divieti canonici.

R. Bordone, L’usura all’italiana. Mercanti e usurai italiani del Medioevo, Storia e Dossier 69, gennaio 1993, pp. 39 s.

TRACCE DI PIACENZA/2

Come trattare un gruppo umano di tal fatta? La Chiesa tentò di “sublimare” lo stato del lebbroso e nello stesso tempo di disciplinarne i comportamenti, non solo con l’assistenza religiosa, ma anche con la spinta a professare i voti di castità, povertà e obbedienza analogamente alle persone sane che si prendevano cura di loro, i cosiddetti “conversi”.
In alcuni casi lo sforzo sembrò approdare al successo, se si deve badare agli statuti di qualche lebbrosario. Ma gli stessi statuti mostrano diversità in proposito. Nella regola vigente nel lebbrosario di Parma, compilata con probabilità nei primi anni del Duecento, l’ammissione nell’istituto degli infermi avveniva con una professione di carattere religioso simile a quella dei conversi, e ai “malsani” di Trento, secondo quanto previsto dagli statuti emanati dal vescovo nel 1241, si offriva la possibilità di pronunciare i voti.
Ordinamenti come quelli di Piacenza e Pavia (1214 e 1216) escludevano invece per i malati lo stato religioso di conversi, indicando (come nel caso di Piacenza) quale sola regola l’astensione dal male nelle parole e nei fatti e la pazienza nel sopportare l’infermità, riducendo a qualche norma di elementare disciplina le costrizioni “religiose”. Un documento veronese che rispecchia la situazione del lebbrosario locale degli anni 1223-1225 fa parlare i malati ed esprime la coscienza che essi hanno di non potere essere assimilati a coloro che professavano i voti, offrendosi all’istituto con un formale rito di oblazione, in quanto si ritenevano incapaci di reggere i pesi della vita religiosa in senso stretto. È una delle rarissime testimonianze in prima persona dei “malsani“: tanto più interessante in quanto mostra direttamente gli ostacoli intrinseci al volere della Chiesa di una completa e reale introduzione del lebbroso alla condizione religiosa.

G. De Sandre Gasparini, La pietà oltre il muro. Lebbra e lebbrosari nel Medioevo, in Storia e Dossier 72, aprile 1993, p.42

TRACCE DI PIACENZA/1

Non sempre l’igiene personale era sconosciuta: anche ritenendo una misura d’eccezione (dovuta alla circostanza) la pulizia integrale degli ammalati al momento del loro ricovero in qualche grande ospedale (accadeva così, per esempio, per il S. Maria della Scala di Siena, nel Trecento), alcune parti del corpo erano usualmente sottoposte a pulizia. Così era per le mani, che di norma venivano lavate prima e dopo il pasto, almeno nei grandi banchetti e fra la nobiltà. Non è senza significato, del resto, che nei corredi di nozze delle aristocratiche o delle ricche borghesi non mancassero mai bacili, “mesciroba” (brocche per l’acqua) e asciugamani destinati a questo uso. Molto probabilmente fra la gente del popolo le cose andavano in maniera diversa, almeno se dicono il vero le feroci descrizioni dei novellieri; certo il sapone era una merce ricercata e costosa (nel 744 Liutprando ne faceva dono in buona quantità alla Chiesa di Piacenza “ad pauperes lavandos”, per lavare i poveri, con un atto che parve degno di essere ricordato per scritto), tanto che le tariffe doganali cui era sottoposto raggiungevano, almeno nel Piemonte del Duecento, i livelli delle più preziose sete o velluti.

D. Balestracci, L’igiene nel Medioevo. Le castellane al bagno, in Civiltà 13, luglio 2011, pp.16-18