TRACCE DI PIACENZA/2

Come trattare un gruppo umano di tal fatta? La Chiesa tentò di “sublimare” lo stato del lebbroso e nello stesso tempo di disciplinarne i comportamenti, non solo con l’assistenza religiosa, ma anche con la spinta a professare i voti di castità, povertà e obbedienza analogamente alle persone sane che si prendevano cura di loro, i cosiddetti “conversi”.
In alcuni casi lo sforzo sembrò approdare al successo, se si deve badare agli statuti di qualche lebbrosario. Ma gli stessi statuti mostrano diversità in proposito. Nella regola vigente nel lebbrosario di Parma, compilata con probabilità nei primi anni del Duecento, l’ammissione nell’istituto degli infermi avveniva con una professione di carattere religioso simile a quella dei conversi, e ai “malsani” di Trento, secondo quanto previsto dagli statuti emanati dal vescovo nel 1241, si offriva la possibilità di pronunciare i voti.
Ordinamenti come quelli di Piacenza e Pavia (1214 e 1216) escludevano invece per i malati lo stato religioso di conversi, indicando (come nel caso di Piacenza) quale sola regola l’astensione dal male nelle parole e nei fatti e la pazienza nel sopportare l’infermità, riducendo a qualche norma di elementare disciplina le costrizioni “religiose”. Un documento veronese che rispecchia la situazione del lebbrosario locale degli anni 1223-1225 fa parlare i malati ed esprime la coscienza che essi hanno di non potere essere assimilati a coloro che professavano i voti, offrendosi all’istituto con un formale rito di oblazione, in quanto si ritenevano incapaci di reggere i pesi della vita religiosa in senso stretto. È una delle rarissime testimonianze in prima persona dei “malsani“: tanto più interessante in quanto mostra direttamente gli ostacoli intrinseci al volere della Chiesa di una completa e reale introduzione del lebbroso alla condizione religiosa.

G. De Sandre Gasparini, La pietà oltre il muro. Lebbra e lebbrosari nel Medioevo, in Storia e Dossier 72, aprile 1993, p.42

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