LOGICA BELPIETRISTA

Fossi nei carabinieri di Varese risparmierei tempo: senza tirare a mano le soffiate della mala di Gemonio, Azzio e Orino, tanto meno quelle dei puttanoni della zona, mi affiderei al succo della ferrea logica belpietrista e punterei direttamente a casa del Trota, requisendogli i petardi che ha preparato per l’ultimo dell’anno e chiedendogli se ha un alibi per ieri notte.

ARGOMENTO ONTOLOGICO PER MATEMATICI

L’insieme di Mandelbrot non è stato certamente un’invenzione di qualche mente umana. L’insieme esiste oggettivamente soltanto nella matematica stessa. Se ha senso assegnare una reale esistenza all’insieme di Mandelbrot, questa esistenza non è nelle nostre menti, perché nessuno può afferrare completamente l’infinita varietà e l’illimitata complicazione di questo insieme. La sua esistenza non può neppure trovarsi nella moltitudine di tabulati sfornati dai computer che cominciano a catturare parte della sua incredibile sofisticazione e della ricchezza di dettagli, poiché questi tabulati possono al più catturare un’ombra di un’approssimazione all’insieme. Esso, tuttavia, ha una forza al di là d’ogni dubbio; la stessa struttura, infatti, si rivela – in tutti i suoi dettagli percepibili, con sempre maggiore finezza quanto più è esaminato da vicino – qualunque sia il matematico o il computer che lo esamina. La sua esistenza può trovarsi solo nel mondo platonico delle forme matematiche.
(R. Penrose, La strada che porta alla realtà, 1.3)

E già se da questo solo fatto che posso trarre fuori dal mio pensiero l’idea di qualche cosa, ne consegue che tutto ciò che percepisco in maniera chiara e distinta come propria di quella cosa, realmente le appartiene, da ciò non si può forse trarre anche la prova dell’esistenza di Dio? Certo trovo in me l’idea di lui, cioè di un ente sommamente perfetto, non meno che l’idea di qualsiasi figura o numero; e non comprendo meno chiaramente e distintamente che l’esistenza eterna è propria della sua natura, di come che ciò che dimostro di qualche figura o numero riguarda anche la natura di tale figura o numero; e dunque, sebbene non tutte le cose, che in questi giorni passati ho meditato, risultassero vere, almeno l’esistenza di Dio dovrebbe essere presso di me nello stesso grado di certezza, nel quale sono state fino ad ora le verità della matematica.
(Cartesio, Meditazioni metafisiche, V, 7)

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe piú grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.
(Anselmo d’Aosta, Proslogion, 2-3)

Sono circa a pagina 30 di quell’enorme e affascinante mattone che è La strada che porta alla realtà, di Roger Penrose. Trenta pagine, la maggior parte delle quali impegnate a discutere filosoficamente sullo status delle verità matematiche. E io mi chiedo: ma perché?!
L’impressione è infatti quella di trovarsi di fronte ad una sorta di excusatio non petita, visto che nell’immaginario collettivo “Scienza? Funziona!”, “Matematica? Funziona!”, mentre “Filosofia? Pippa mentale!”. Eppure, non so, c’è qualcosa di strano. Come se il semplice dire “Funziona!” risultasse insoddisfacente agli stessi matematici, e la ormai secolare disputa sui fondamenti della matematica non fosse per niente conclusa. Ma vabbè, chissenefrega, il problema è loro, dei matematici.
Però nel mio piccolo, e nel caso specifico, mi stupisco sempre del come sia possibile per scienziati e matematici fare affermazioni apodittiche che difficilmente sarebbero perdonate a un filosofo, e meno che mai a un teologo.
No, dico: Penrose sostiene l’obiettività della verità matematica riconducendola esplicitamente all’esistenza di un mondo platonico, “un oggettivo modello esterno che non dipende dalle nostre opinioni individuali“, del quale sostiene l’esistenza con argomentazioni in fondo non dissimili dal famigerato argomento ontologico di Anselmo e Cartesio.
Ora, il problema non è innanzitutto la plausibilità o la modalità di esistenza di un simile mondo (che già pure è un bel casino).

Il problema, a mio parere, è che in questo modo il Penrose finisce per unirsi al vasto gruppo di matematici (e scienziati?) che tuttora continuano a ridurre (a elevare?) la matematica (la scienza?) a metafisica, senza rendersi conto che in questo modo finiscono per esporre la matematica (e la scienza) alle stesse identiche critiche e allo stesso identico processo decostruttivo che da Nietzsche in poi hanno compromesso prima le basi, e poi l’esistenza stessa della metafisica.
Ed è inutile rifugiarsi dietro il solito “ma la Scienza funziona!”: ad essere in discussione non è il fatto che la scienza e la matematica funzionino o meno, e il fatto di funzionare o meno di per sé non significa un bel nulla dal punto di vista filosofico. Questa pacifica e non pensata (ri)assimilazione della matematica alla metafisica dovrebbe essere una buona occasione per (ri)cominciare a riflettere sul vero problema, che non è tanto il fatto che la matematica e la scienza funzionino o meno, ma sul come sia possibile che funzionino.
A maggior ragione se – orribile a dirsi! – si poggiano su basi metafisiche.

FITTE DI NATALE

Il Natale, a me, mi fa male.
Ma intendo un male fisico. Come di punta al fianco, però non intenso: continuo, costante, sordo.
Non c’è una ragione.
O almeno, credo che non ce ne sia solo una.  Piuttosto è un insieme di ragioni. Così, più che un male è una sindrome. Una bella sindrome di Natale.
Una ragione è che non son più capace di godere del Natale come quando ero bambino, o anche solo ragazzo. Non ho più quell’eccitazione, quel gusto del conto alla rovescia, quella voglia di gustarmi ogni istante, il prima e il durante. Non son più capace nemmeno di sentire la tristezza del dopo. Il tempo degli adulti mi ha preso e macinato, quel tempo fatto di istanti numerabili e uguali l’uno all’altro, privi di individualità, ai quali non basta appiccicare un’etichetta (Natale, Pasqua, compleanno, anniversario) per regalare un’unicità.
Un’altra ragione è che purtroppo mi viene spontaneo, prima di pensare alle persone con cui trascorrerò il Natale, pensare a quelle che non ci sono più. Alcune perché son morte, ed è chiaro che lì la fitta si fa più lancinante. Altre perché se ne sono andate: hanno incrociato la mia vita e il mio destino, poi se ne sono allontanate. Altre ancora le ho perse di vista, lentamente e quasi inavvertitamente. Ma in questi giorni il loro volto ritorna alla memoria e reclama l’offerta di un sospiro di rimpianto.
Un’altra ragione ancora è che, più passa il tempo, più avverto la sproporzione, direi l’incommensurabilità, tra quel che penso, quel che credo, quel che so essere il Natale, e la mia incapacità di avere per questo uno sguardo diverso sulla realtà, sulle persone e le cose. Divento sempre più inadeguato e incapace davanti alla bellezza e alla novità. E sempre più incline alla malinconia e all’autocommiserazione. Ma l’accorgermi di questo mi fa male, ed ecco ancora la fitta al fianco.
Ma ancora penso, sento, – credo mille volte migliore sentire questa fitta che non sentirla affatto.
A tutti voi, ora che il giorno è trascorso – e che siamo tutti minacciati dall’effetto Sera del dì di festa – auguri di buon Natale, e di una buona fitta.