COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 18

Io tutto ‘sto problema nel costruire muri che ci dividono dagli immigrati mica lo vedo. A me sembra un’ottima idea.
Per esempio, prendi casa mia. Di là dal muro c’è la famiglia di Bogdan. Oggi ho imparato che si chiama Bogdan, appunto, e che è rumeno (– Ma come rumeno!, Bogdan non è un nome slavo?– Eh, sì, ma tanto quando lo dico non lo capisce nessuno). Il muro, dicevo. Metti che non ci sia il muro, io e Bogdan avremmo in comune la mia sala e il suo corridoio, e quel che è peggio è che avremmo in comune un gabinetto open space. Che non sarebbe un bel vedere, dai.
Ho imparato che si chiama Bogdan perché è rimasto senza luce. Era lì che stirava (la moglie stava dietro al bambino, un trottolino biondo che corre tutto il giorno) quando la luce, zac, è andata via. E allora ha suonato al vicino, cioè a me, per chiedermi se sapevo dov’era il contatore, come si fa tra vicini. E allora l’ho accompagnato giù in cantina, e in ascensore gli ho chiesto da dove veniva, e lui mi ha detto dalla Romania e si è presentato, Mi chiamo Bogdan, e io Piacere, Leo, e siamo andati giù e abbiamo tirato su il contatore.
E quindi tra me e Bogdan c’è un muro, e mi sembra normale. E anche giusto. E opportuno.
Anche perché la moglie è antipaticissima. O almeno così mi dice la mia signora, che a furia di incontrarla sul balcone a stendere, così, tutta bionda, giovane giovane magra magra coi pantaloncini corti, non l’ha presa in simpatia. E quindi meno male che c’è il muro, ‘nzia mai che incrociassi troppo spesso la scorbutica.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 13

Cool as the other side of the pillow. Che bello. È un’espressione che non conoscevo, e mi piace tantissimo. Mette insieme un modo d’essere che mi è lontano mille miglia (non so cosa caspita significhi, davvero, essere cool, ma sono sicuro che non mi riguarda) con un’immagine che invece mi riporta con la memoria a un’epoca in cui manco sapevo che esistesse l’aria condizionata, e la val padana offriva estati sudate e appiccicaticce anche senza bolle africane, e comunque ero in vacanza, e il giorno dopo non c’era scuola, e andavo a dormire tardi, e nel letto mi giravo e rigiravo per il caldo, e mi stupivo del come fosse possibile che il semplice voltare il cuscino dall’altra parte portasse con sé quel dono di frescura, breve ma sufficiente a farmi prendere sonno, e mentre giravo gallone mi chiedevo come fosse possibile che l’altro lato del cuscino fosse sempre un po’ più fresco del zzzzzzzz……

biscotti del Lagaccio, per fare colazione, sono un grosso non so, non so.

A paragone della riforma Moratti e del lavoro di Bertagna & co., l’elaborazione delle Indicazioni per il Curricolo da parte di Ceruti e tutto il pensiero di Morin mi paiono parecchio banali, di una banalità filosofica ancor prima che pedagogica. Metto le mani avanti: è la mia prima reazione, a caldo. Ma è fortissima l’impressione di un voler correre dietro alle mode globaliste dell’epoca (2006-07) e ad un certo volemosebbenismo piuttosto diffuso nella ex sinistra Dc e nella Margherita del ministro Fioroni, ma anche a tutta l’area dell’Ulivo e alla sinistra bertinottiana che poi finirà in Sel.
Trovo debolissima l’insistenza di Morin sulla “frammentazione del sapere” come male per eccellenza (e in particolare, come ti puoi sbagliare, il male starebbe nell’iperspecializzazione del sapere scientifico), e trovo a dir poco semplicistica la proposta, come rimedio, di ricostruire una visione globale della conoscenza che in fondo sarebbe un semplice rimettere insieme i cocci del sapere che s’è rotto, in un’operazione che, nel mentre che opera di Attak, evidenzia e lascia sussistere la separazione avvenuta – proprio come sul vaso rappezzato si vedono benissimo le crepe e le sbavature di colla – , e allora perché ostinarsi a biasimarla? Il giochino della cultura è da mo che s’è rotto, caro Morin, fattene una ragione. Indaghiamo semmai sulle ragioni e su quel che ne è venuto fuori, ma indietro non si torna, mai.
In sovrappiù, non sapevo che l’espressione Nuovo Umanesimo fosse appunto del Morin. Tendevo ad attribuirla a Fissore, unico vero maître à penser di questi nostri tempi bui.

Mentre i nostri musei vengono affidati a mani straniere, il padovano Piero Benvenuti viene eletto segretario dell’IAU, l’Unione Astronomica Internazionale, l’organizzazione che, come dice il Corrierone nostro, dà i nomi alle stelle. Ma – e questo l’ho imparato oggi – dice Benvenuti che non ci sono più stelle da nominare. Che al massimo ci sono gli asteroidi e, come ovvio, i pianeti extrasolari, qualche satellite non ancora avvistato e certo la miriade di oggetti ghiacciati delle varie fasce e nubi che si estendono al di là di Plutone, lo sterminato Molise del sistema solare. Ma stelle no, le abbiamo nominate tutte.
Ecco, questa è una cosa che mi lascia senza parole. Nominare le stelle era attributo divino: Prova a contare le stelle del cielo, Abramo, e tale sarà la tua discendenza. E quando Giobbe prova ad alzare la cresta, il Signore lo mette a posto dicendogli: Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione? Insomma, intorno al nominare le stelle ruota l’immenso Stacce! dell’Onnipotente rivolto alla sicumera dell’ambizione umana alla conoscenza.
E invece, abbiamo davvero nominato le stelle. E quindi?
Leopardi se lo chiede, se per caso il nominar le stelle, indice di potenza umana sovrumana, potrebbe significare di per sé essere più felici:

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.

Oggi, noi che abbiamo noverato le stelle e che le abbiamo battezzate tutte, possiamo rispondere  tranquillamente al dubbio del pastore errante.
… pastore, magna pure tranquillo.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 05

Se stai pedalando in salita (e hai cinquant’anni, e non sei mica lì a fare del professionismo, ma sudi e ansimi perché in qualche modo fare esercizio ti fa bene e comunque andare in bici ti piace un sacco), a comandare sono le gambe, il ritmo cardiaco e l’ossigenazione, non l’orgoglio. Se gambe cuore e polmoni dicono Cazzo, fermati!, tu ti fermi, punto. Poi magari riprendi. Che gambe cuore e polmoni hanno sempre ragione, l’orgoglio produce solo un mucchio di telefonate al 118 che si sarebbero potute evitare facilmente.


Forse ho capito la differenza fra rating e ranking, in riferimento alle scuole e ai loro risultati (qualunque cosa siano i risultati di una scuola): il ranking dovrebbe essere una graduatoria discreta nella quale ciascuna scuola occupa un posto, laddove il rating mi pare essere l’inserimento della stessa scuola in una fascia di valutazione di ampiezza convenzionale. Non chiedetemi di più, non obiettate, non contestate, è una distinzione che funziona quando rispondo ai test ministeriali e tanto mi basta, almeno per ora.

Ho finalmente trovato un Cinque Stelle che mi sta piuttosto simpatico MA, COM’È COME NON È, ORA NON C’È PIÙ!

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 03

Esistono prodotti specifici per lavare le tende. Nella mia testa il lino era lino, il cotone cotone, la lana lana. Il colorato era colorato e il bianco bianco. E invece no: molto dipende anche dalla forma, non solo dalla sostanza. Il cotone a forma di lenzuolo richiede un prodotto diverso dal cotone a forma di tenda.

Le nostre percezioni sono influenzate dai nostri pregiudizi e dalle nostre aspettative: e fin qui. Ma non immaginavo fino a che punto lo siano. Bruner fa un esperimento. Prende un gruppo di ragazzi poveri, un gruppo di ragazzi ricchi ed un terzo gruppo di controllo, non importa se ricchi o poveri. A tutti e tre i gruppi viene dato un compito: devono paragonare le dimensioni dell’oggetto che viene loro messo in mano con quelle di un fascio di luce circolare proiettato su una scatola. Tramite una manopola possono variare le dimensioni del fascio di luce fino a farlo coincidere, a loro parere, con quelle dell’oggetto che hanno in mano. Ai primi due gruppi viene data in mano una moneta; al gruppo di controllo un disco di cartone, o di legno, non so. Risultato: il gruppo di controllo più o meno ci becca; il gruppo dei ragazzi ricchi tende a sovrastimare le dimensioni della moneta fino al 30% del diametro effettivo; i ragazzi poveri tendono anch’essi a sovrastimare il diametro della moneta, ma fino al 40% del diametro. Bruner conclude che essere ricchi influenza la percezione che si ha del denaro; essere poveri ancora di più; dei dischi di cartone non gliene frega nulla a nessuno. (Ed è interessante fra l’altro rilevare che quanto meno te ne frega di una cosa tanto più è esatta la percezione che ne hai; e viceversa, ovviamente.)

Le Assicurazioni Generali stanno sperimentando una nuova strategia di marketing. Mi hanno mandato una lettera commerciale nella quale mi invitano a sottoscrivere uno dei tre prodotti assicurativi elencati per poter partecipare all’estrazione di una Smart. L’assicurazione a premi ancora non l’avevo vista.

Andare al funerale di un bambino di dodici anni insegna sempre parecchio. Ma non ne voglio parlare, qui. Non mi pare il caso. Semmai un’altra volta, a tu per tu, davanti a una birra. O a qualcosa di più forte, che è meglio. Okay? Okay, deal.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 02

I pompieri che stendono i panni in shorts sul balcone, qui, davanti alle finestre della mia cucina, appartengono ad un’altra specie, non umana.

Il cantante dei Joy Division s’è ammazzato prima dell’uscita del loro secondo e ultimo disco. Sì, è una cosa del 1980, e io la scopro ora, e allora? Eh, oh.

È inutile che Caprotti abbia fatto mettere un gabinetto in ogni negozio Esselunga. Qualcuno riesce comunque a vomitare a dieci metri scarsi di distanza dalle porte del cesso, proprio davanti ai due portelli automatici per l’ingresso dei clienti.

C’è questo articolo, no?, il 50 della Legge 35 del 4 aprile 2012 (che converte in legge il DL 5 del 2012), che prevede la costituzione di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, occhei? Bene. L’idea è bellissima: più scuole si mettono assieme e si uniscono per gestire in maniera ottimale le proprie risorse, umane, strumentali e finanziarie. Ne deriva la possibilità di definire un organico di rete: i docenti, invece di essere assegnati ad un unico istituto, sono assegnati a tutti gli istituti che compongono la rete, in funzione dei progetti ai quali partecipano e che vengono condivisi fra le scuole, soprattutto per le questioni legate all’integrazione scolastica ed all’inclusione. Figata!, bene. Ma quel cretino d’un articolo alla fine dice: tutto ciò, nei limiti previsti dall’art. 64 del DL 112/25 giugno 2008, convertito, con modificazioni, dalla L 133/6 agosto 2008, e successive modificazioni. Tradotto: nei limiti fissati dalla Riforma Gelmini, che ha come ritornello la “riduzione complessiva degli organici del tot %”. Ma vaffa, va’.

Un americano può chiederti l’amicizia su Feisbuc perché gli è piaciuto un casino un filmato in cui un tizio suona Comfortably Numb su un iPhone, e visto che ‘sto tizio si chiama Leonardo Muccari lui pensa bene di chiedere l’amicizia a tutti quelli che hanno un nome simile per cercare il tizio e fargli tanti tanti complimenti. Occheione.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 01

(Mi sa che ne faccio una rubrica quotidiana. Che è bello, a mezzo secolo, scoprire che ogni giorno ne impari una nuova. E quindi)

COSE CHE HO IMPARATO OGGI

Vygotskij appartiene a quella serie di genî che, ‘tacci loro, crepano troppo presto (38 anni, ma dai!). La sua teoria della zona dello sviluppo prossimale è una delle cose allo stesso tempo più semplici e rivoluzionarie che la storia della pedagogia abbia mai affermato.

Dicheno che a non far dire le parolacce agli studenti, e a sorvegliare il loro linguaggio, e a invitarli ad usare espressioni formalmente corrette, il loro rendimento migliora. Dovrò cambiare completamente metodo e approccio, cazz… ehm, mannaggia.

Sono troppo grezzo e ignorante per apprezzare alcune cosette. Per dire, le Kantaten di Bach mi paiono tutte uguali e in fondo in fondo madò che rottura di palle.

La vita in fondo è semplice. C’è chi per essere contento gli basta solo che qualcuno metta un like sotto la sua foto di un limone.

Prima di dire che un ragazzo che evidenzia certi problemi ha un Dsa, l’insegnante deve attivare un percorso di recupero sistematico e mirato ai bisogni di quel ragazzo; solo se il percorso fallisce e i problemi continuano a manifestarsi si invita la famiglia a contattare uno specialista. Insomma, pensa te, non si tira a indovinare e non è una questione di “sensibilità”.

C’è gente che non aveva idea di cosa significasse il marcire delle patate in casa. C’è gente che forse ne ha idea o forse non ne ha idea, ma che comunque è stata testimone di esperienze domestiche di decomposizione che neanche i netturbini di Calcutta. E te le racconta, il/la maledetto/a, con dovizia di particolari.

STREAM OF CONSCIOUSNESS

Non si sa che cosa voglia fare, il cielo. Le nuvole sono grigie d’un grigio pesante, e dagli squarci azzurri il sole di tanto in tanto mi ferisce gli occhi.
Tiro giù l’aletta parasole e spengo l’autoradio.
Peccato, penso, proprio su The Lamia. A lui The Lamb Lies Down On Broadway non dice nulla. Sta silenzioso e teso, gli occhi fissi sui fogli di una presentazione in PowerPoint, del tutto noncurante della strada, delle altre auto e delle traversie di Rael.
Resta il motore a farmi compagnia, e il flusso di coscienza.

Tutto al contrario, ho fatto. Tutto al contrario.
Prima, il figlio.
Poi, il lavoro.
Poi, il matrimonio.
Poi, mi son laureato.
Tutto al contrario.
Eppure, quanta  soddisfazione in questo aver fatto tutto al contrario. Quanta sorpresa, e quanta novità. È un  po’ come i pittori che per vedere i rapporti tra le forme – dicono – osservano i paesaggi a testa in giù. Come se l’upside-down ti consentisse di uscire dalla routine e dal dar per scontato, ti costringesse ad avvertire peso e consistenza delle esperienze che credi a torto solite e banali.
Che c’è di più banale del laurearsi, del lavorare, dello sposarsi e del far figli? Eppure, prova a farlo al contrario.
Un bar tra piazza Fontana e via Larga. Mio padre, mia madre e mia moglie. Un caffè seduti a un tavolino. Poche parole, sorrisi quasi commossi e un’enorme soddisfazione. Quattro persone, quattro caffè. La mia festa di laurea. Poi via, a prendere le macchine, subito a casa, in tempo per l’uscita dall’asilo.

Il cielo si è chiuso. Piove. Il tergicristallo si muove a ritmi alterni. Rimetto a posto l’aletta parasole. Lui sfoglia e tace, si sistema gli occhiali e tace. In lontananza l’A1 si perde nel pulviscolo d’acqua, diventa un susseguirsi di lampi rossi di stop e frecce gialle.

Che poi il tempo passa e tutto cambia.
Che è un modo un po’ banale per dire che s’invecchia.
Che è un modo ancor più banale per dire che alla fin fine si è fatto qualche passo in più verso la morte.
Per cui è molto meglio dire che il tempo passa e tutto cambia.
Perfino i parcheggi. Per dire, via Kennedy è tutto un divieto di sosta. Ci parcheggiavo cinque giorni su sei e ora niente, vietato.
Son passati otto anni. Cambiano le persone, figurarsi i parcheggi.
Qualcosa però non cambia, per fortuna. Due anni di SSIS ti permettono di rintracciare a colpo sicuro (e velocemente) i cessi di Lettere. Ma anche il migliore bar pasticceria di via D’Azeglio.

Il tempo passa e tutto cambia. Ripercorro l’A1 in senso inverso. C’è sole e calore, adesso, colore e musica.
In sottofondo Grant Lee Buffalo canta Rock Of Ages.

Sorpasso, parlo, ascolto. Rido, sorrido, ridiamo e sorridiamo, rilassati.
Passato, presente, futuro, cosa importa.
Salto l’uscita, e neanche me ne accorgo. Ma sì, Piacenza Sud, Piacenza Nord, chissenefrega, andiamo avanti ancora un po’, ché quando ci ricapita?

SE HO SENTITO LA TUA MANCANZA

Se ho sentito la tua mancanza, mi chiedi?
Eh. Vediamo se riesco a farti capire.
Sì, certo che mi sei mancata. Mi sei mancata tutti i giorni per tutto il giorno, ora per ora. Anche in quelle ore che di solito non trascorriamo insieme, tu al lavoro, io al lavoro. Ma mi dava come una fitta di malinconia sapere che eri comunque lontana, più lontana di quanto la nostra normale geografia del quotidiano di solito ci imponga.
Mi sei mancata a casa, nei lavori di casa, nel mio darmi d’attorno sapendo bene che avrei fatto le cose come non devono esser fatte, e che le avrei fatte come a te non vanno bene, e che tu le avresti fatte meglio.
Mi sei mancata la notte. E qui, va beh.
Ma dove mi sei mancata di più è in un posto che non mi aspettavo e che mi ha sorpreso come un tradimento.
Perché, vedi, coi miei figli io ci sto bene.
Ormai son grandi. Uno sta dietro alla tesi, l’altro ha la scuola, i compiti, lo studio e il pianoforte. La loro camera è un campo di battaglia, ma me ne frego: chiudo la porta e li lascio annegare nel loro marasma.
Insomma, insieme non ci diamo noia. Io ho le mie cose, loro le loro, e conviviamo insieme come un terzetto di collegiali in convitto.
Parlare si parla, soprattutto a tavola. Una battuta, un commento, una domanda. Due cose sulla giornata a scuola, due cose sulla partita, due cose sul programma del pomeriggio o su quello del giorno dopo. E poi via, io a sparecchiare, loro a riprendere le attività consuete, lo studio, o la tv, o il fancazzismo estremo.
Ed è proprio qui che mi manchi.
Mi manchi da fare male, perché il tessuto delle nostre giornate è come se fosse disconnesso. Io e quegli altri due stiamo insieme come le pezze di un patchwork, ora bene accostati, ora facciamo a cazzotti, vicini ma sempre separati. Non so perché, non so come mai. Ma so, vedo che è così. Sarà l’essere tre maschi, sarà quel po’ di Dna da orso che gli ho trasmesso, ma quando stiamo insieme non siamo insieme, non so se mi capisci. È come se fosse sempre una convivenza provvisoria (e so che in un certo senso è davvero così, niente è più provvisorio di un figlio che ti vive insieme). Però la sensazione non è bella. Dà una sottile angoscia, come di un desiderio di qualcos’altro che sai che non sarà mai e che stai già perdendo.
Ma quando ci sei tu, io questo non lo sento. Perché ci sei tu, col tuo modo di starci.
Perché sei tu che ci cuci insieme. Il tuo darti d’attorno, il tuo continuo fare, il tuo continuo chiedere, raccontare, le tue preoccupazioni, il tuo arrabbiarti, il tuo farci vedere, quel tuo ostinato voler sapere e voler conoscere tutto di loro, non mi sono mai reso davvero conto di quanto siano importanti, di quanto siano essenziali.
Sei come la navetta che tesse trama e ordito. Sei tu che ci tessi. Sei tu che ci tieni insieme e che fai di quattro persone una famiglia.
Mi sei mancata come può mancare qualcosa che ti è essenziale, qualcosa che ti fa quel che sei.
Senza di te non siamo noi.

SPAZIO-TEMPO

Ti ricordi quando andavi a scuola?
La sera preparavi la cartella e i vestiti sulla sedia e al mattino tenevi il posto occupato per l’amica e guardavi l’orario per sapere se sarebbe stata una giornata pallosa oppure divertente.
Ti veniva da ridere per ogni cazzata e c’era sempre quello che faceva le caricature di insegnati e compagni. Ti sudavano le mani perché c’era il compito in classe e sbirciavi il foglio del vicino cercando risposte o conferme.
E poi ci si trovava dopo scuola per spettegolare sui compagni e ridere e fumare.
Ritrovarsi con 40 professionisti chiusi in un’aula per 15 giorni è stato come essere proiettati in una classe numerosa delle medie.
C’era la secchiona, il polemico, il cazzone, la più bella della classe, i gruppetti, l’insicura, il bullo e il cascamorto. C’erano le ipotetiche coppiette, quelli che si stavano sul culo, quelli che volevano essere simpatici a tutti. C’era quello che “io sono appena tornato dall’America” e quella che “insomma, fate silenzio”. C’era tutto un meraviglioso microcosmo di personaggi che nella vita son gente serissima con un sacco di responsabilità e che in quella stanza erano solo ragazzini brufolosi.
C’ero io che non so perché ma gli altri pensano che ne so e invece io penso di non saper mai niente.
E c’era Ferrara. Che io in un posto così ci potrei vivere per sempre. Per. Sempre.

PERDONAMI

E niente. Glielo devo, a Giuseppe.
Non so proprio cosa scrivere. Forse la cosa migliore è cominciare dall’inizio. Ci provo.
Non è la prima volta che muore un mio studente. In ventiquattro anni di insegnamento, a botte di circa tre, quattrocento studenti l’anno, non è così improbabile avere a che fare con tragedie del genere.
(Senza contare la morte di colleghi, o la morte dei genitori dei miei allievi. Ma la morte di un ragazzo, beh, è molto più difficile da accettare.)
Negli ultimi anni, per dire, sono morti due miei ex allievi.
Uno al primo anno di università. A un incrocio con la statale 45. Non so se avesse torto o ragione, chissenefrega, fatto sta che bum, c’è rimasto secco sul colpo. Vent’anni, brillante, matricola a ingegneria dei trasporti, se ricordo bene, ma non importa. Quanti dei miei studenti sono rimasti coinvolti in incidenti, quanti ne sono morti? Non so, certo non una moltitudine, ma nemmeno pochi. Gli incidenti, si sa. Càpitano.
L’altro, alle soglie della laurea. La puntura di un’ape, di una vespa, vallo a sapere. Mentre stava andando a casa in motorino, lui che abitava in campagna. Ha fatto a tempo ad arrivare, a togliersi il casco e a dire che stava male. Poi, buio. Shock anafilattico. Che è già diverso da un incidente d’auto, eh. Il fattore sfiga assume dimensioni più mostruose, e tutto cospira per farti bestemmiare come se non ci fosse altro mezzo per dare sfogo al dolore. Ma si sa, son cose che capitano. Raramente, eh, grazie al cielo, ma capitano.
Ma Giuseppe no. È tutta un’altra storia. E non me ne capacito, non mi do pace.
Giuseppe ce l’ho avuto per un solo anno. Ma era l’anno della mia unica supplenza annuale di storia e filo. Così, con la classe di Giuseppe ho trascorso più tempo di quanto non ne trascorra normalmente in cinque anni con le classi in cui insegno religione. A quei ragazzi mi sentivo e mi sento tuttora legato.
Fatto sta che Giuseppe era un mio allievo. Bravo, capace. Timido, mai sopra le righe, ma di compagnia, spiritoso e sveglio.
L’ultimo ricordo che ho di lui è una sua mail che mi ha scritto all’indomani della terza prova d’esame, con una sua battuta e i ringraziamenti per il messaggio di auguri che avevo spedito loro la sera prima.
Giuseppe ha studiato a Pavia e si è laureato in biotecnologie, naturalmente in corso.
Giuseppe ha compiuto ventitre anni il 21 agosto.
E una settimana dopo, la sera, Giuseppe si è buttato sotto a un treno nella stazione di Pavia.
Perché.
Perché, perché. Perché.
Boh.
Io l’ho saputo solo ieri sera. Mentre partecipavo all’asta di un fantacalcio. Perché è giusto che la vita ci prenda per il culo, è giusto così. Me l’ha detto un suo ex compagno di classe.
Era un po’ di tempo che Giuseppe aveva dei disturbi, mi ha raccontato. Niente di grosso, delle amnesie, ma insomma, la cosa lo aveva preoccupato. E ha provato, come è ovvio, a guardarci dentro.
Ma a quel che ho capito, non ha nemmeno aspettato di avere in mano l’esito delle analisi. Ha lasciato un messaggio, credo sul telefonino, e il senso del messaggio era: preferisco aver vissuto pienamente anche solo ventitre anni piuttosto che vivere da larva il tempo che mi rimane.
Il telefonino lo ha abbandonato, o gettato, sulla banchina della stazione di Pavia.
Su Facebook ci sono i messaggi dei suoi amici, come sempre in queste occasioni. Sono tutti improntati a grande tristezza, com’è ovvio, ma anche a grande pace. Sembrano tutti comunque contenti di averlo conosciuto, di avere avuto a che fare con lui (giuro, li capisco, e credo che siano sinceri, ché il ricordo che ho di Giuseppe mi porterebbe a dire le stesse cose).
Poi ci sono i suoi ultimi messaggi. Giuseppe che ringrazia gli amici per la festa di compleanno a sorpresa. Giuseppe che posta il video delle canzoni di un paio di gruppi a me ignoti. Giuseppe che non si ricorda di aver spostato in un’altra cartella i filmati della sua vacanza, e che la trova vuota. Una delle sue amnesie, forse. Fatto sta che ventiquattr’ore dopo si buttava sotto a un treno.
La sorella dice che non lo perdonerà mai. Che questo non glielo doveva fare. Che certo, continuerà a volergli bene, ma non doveva farli soffrire così.
E insomma, tutto il luna park del dolore, tanto scontato quanto inevitabile e vero.
E io non so cosa dire. Al solito mi vien da pensare a un bel po’ di cose, forse banali, ma non so che farci.
Tipo.
Ma porca puttana, con 603 contatti su Facebook, neanche un cane con cui provare a parlare a tu per tu, con cui sfogarti, a cui dire che non ne potevi più?! Perché sempre questa sorpresa, questo dire ma non sembrava, nessuno se l’aspettava?
E davvero non sembrava? Chissà quanti segnali avrai dato, chissà quante parole buttate lì, quanti discorsi appena abbozzati. Chissà quanti  momenti in cui sei stato insieme a qualcuno ma senza che nessuno fosse davvero presente, lì, per l’altro. Disposto davvero a guardare l’altro, disposto davvero all’ascolto. Chissà quanto dolore ci passa accanto, anche in chi ci è più vicino, e noi manco ce ne accorgiamo.
E di cosa hai avuto paura, Giuseppe? Non di morire, è evidente. E nemmeno del dolore. Non hai fatto una morte meno dolorosa di quella che (forse!) ti era destinata. E allora, di cosa hai avuto paura?
Ahimè, di vivere. Non mi viene altra risposta. Di vivere a condizioni diverse da quelle che tu volevi porre.
Ne avevi diritto? Sei stato vigliacco? Sei stato coraggioso? Ti sei sentito solo? Abbandonato?
La cosa tremenda è che né io, né nessuna delle persone che tu hai incontrato in ventitre anni è stata in grado di lasciarti qualcosa che, in quel momento, fosse in grado di fermarti, di farti cambiare idea.
È per questo che sono triste. Che scrivo questo post orrendo. Per l’inutilità e lo spreco della tua morte. Per l’inutilità e lo spreco dei rapporti. L’inutilità e lo spreco del tempo, di quel che dico e che faccio.
Perdonami. Perdonaci.