TRACCE DI PIACENZA/6

La seconda grande incursione magiara, nel 924, vide gli ungari, guidati da un capo di nome Salardo, comparire all’improvviso sotto le mura di Pavia e cingerla di un regolare assedio, una tecnica assolutamente inusuale per questo popolo. L’assedio fu condotto, però, secondo la tradizione magiara, appiccando il fuoco alla città con il lancio di frecce incendiarie. L’eroica difesa della capitale del regno italico convinse però gli ungari a risparmiare quanto restava della città in cambio del pagamento di un tributo.
Dopo Pavia gli ungari si diressero in Piemonte e da qui in Valle d’Aosta. Entrati quindi in Borgogna, vennero sconfitti da re Rodolfo II con l’aiuto di Ugo di Vienna, che di lì a poco, nel 926, con il nome di Ugo di Provenza sarebbe divenuto re d’Italia. Ma la sconfitta subita non impedì ai magiari in ritirata di compiere saccheggi e devastazioni per tutta la Provenza. Nel 927 fu la Toscana a essere messa a ferro e fuoco dagli ungari; e, come riferisce una tarda cronaca del XIII secolo, anche Piacenza dovette probabilmente subire una nuova razzia e fu incendiata nel 931.

P. Moro, Il ciclone magiaro. Le incursioni degli ungari in Italia, Storia e Dossier 66, ottobre 1992, p.34

TRACCE DI PIACENZA/5

La trasformazione da mercante in prestatore si realizzò gradualmente attraverso la consuetudine con il cambio della moneta da parte dei mercanti lombardi operanti nelle fiere; l’eccessiva diffusione del diritto di battere moneta, legata al particolarismo politico, aveva infatti provocato una circolazione molteplice di monete di valore e corso diversi e oscillanti, sicché negli scambi internazionali occorreva una particolare competenza per assegnare a ciascuna il giusto valore di mercato. Astigiani, chieresi e piacentini si specializzarono in questa attività, molto remunerativa per chi fosse attento alla speculazione, e ottennero un primo riconoscimento ufficiale come “cambiatori”. La disponibilità di contante in diverse valute consentì loro poi di poterlo offrire sul mercato finanziario e di metterlo cosi in circolazione sotto forma di prestiti, nonostante i divieti canonici.

R. Bordone, L’usura all’italiana. Mercanti e usurai italiani del Medioevo, Storia e Dossier 69, gennaio 1993, pp. 39 s.

TRACCE DI PIACENZA/4

Avversati ufficialmente dalla Chiesa, che condannava il prestito a interesse come peccato d’usura, i prestatori italiani erano ben conosciuti Oltralpe proprio con il nome di lombardi; spesso erano anche chiamati per analogia caorsini, dalla località di Caors in Provenza i cui abitanti erano dediti a questa attività. Sicché il termine lombardo o caorsino, perdendo connotazione geografica precisa, finì per indicare i presta denari di piccolo o medio cabotaggio insediati capillarmente nelle città o nei villaggi, distinti dalle agenzie delle grandi banche internazionali. Almeno al principio, tuttavia, il nome “lombardo” non era casuale o generico, poiché la maggior parte dei prestatori proveniva davvero da quella regione (comprendente gli attuali Piemonte, Lombardia ed Emilia) che nel Medioevo conservava l’antico nome di Longobardia o Lombardia: erano stati infatti piacentini, milanesi, chieresi, albesi e soprattutto astigiani a sviluppare l’attività creditizia, sicché Benvenuto da Imola, commentando Dante, a proposito degli abitanti di Asti scriveva attorno al 1376: “Pecuniosiores Italicis, quia sunt maximi usurarii”. Gli astigiani erano più ricchi degli altri perché più degli altri dediti all’usura.
L’attitudine agli spostamenti verso il mondo europeo da parte degli abitanti delle città della “Lombardia” è d’altra parte documentata fin dai secoli precedenti: pur tralasciando le tracce più antiche, conservate nei diplomi concessi dagli imperatori ai negotiatores delle città padane, sappiamo che i contatti con le aree europee di produzione di materie prime erano tenuti proprio dalle città dell’entroterra (“lombarde”, ma anche dell’Italia centrale), ben presto specializzate nel ruolo di mediazione fra i centri dell’Europa settentrionale e i porti mediterranei. Erano i lombardi delle città piemontesi, prime fra tutte Asti e Piacenza, ma anche toscani di Lucca e di Firenze ad affluire numerosi ai periodici incontri commerciali che dalla seconda metà del XII secolo si tenevano annualmente in quei centri della Champagne in cui confluiva la produzione francese e fiamminga.

R. Bordone, L’usura all’italiana. Mercanti e usurai italiani del Medioevo, Storia e Dossier 69, gennaio 1993, pp. 38 s.

TRACCE DI PIACENZA/3

Mentre il non expedit presupponeva, in linea di principio, un disconoscimento della legittimità dello Stato liberale, precludendo ai cittadini cattolici l’esercizio del diritto di voto (del resto riservato, sino al 1882, a una minima parte della popolazione), l’associazionismo cattolico godeva, in specie nelle aree settentrionali e centrali del Paese, di un seguito notevole, e trovò un fattore di coagulo nei periodici congressi dei cattolici italiani, avviati nel 1874 a Venezia, e nella formazione di comitati parrocchiali e diocesani. Essi produssero nel 1875 un organismo di coordinamento nazionale, l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici, che per circa un trentennio costituì l’asse organizzativo del movimento cattolico detto, per le sue posizioni, “intransigente”.
Non mancarono tuttavia gruppi di cattolici, in genere sostenuti da una parte minoritaria del clero e persino da alcuni vescovi (Bonomelli di Cremona, Scalabrini di Piacenza, Capecelatro di Capua) che si batterono contro la linea intransigente, sostenendo da un lato che lo Stato nazionale era da considerarsi un fatto irreversibile e, dall’altro, che la classe dirigente liberale non era da considerarsi tutta ugualmente avversa alla Chiesa e alla religione. Questa minoranza cattolica, detta “conciliatorista”, cattolico-liberale o transigente, raccoglieva in parte l’eredità del neoguelfismo, auspicando la rapida composizione del conflitto tra Stato e Chiesa, una soluzione di compromesso della questione romana, e l’intervento anche elettorale dei cattolici a sostegno dei liberali favorevoli al dialogo con la Chiesa.

F. Traniello, Una breccia da chiudere. I cattolici italiani nell’Ottocento, in Storia e Dossier 73, maggio 1993, p.8

 

TRACCE DI PIACENZA/2

Come trattare un gruppo umano di tal fatta? La Chiesa tentò di “sublimare” lo stato del lebbroso e nello stesso tempo di disciplinarne i comportamenti, non solo con l’assistenza religiosa, ma anche con la spinta a professare i voti di castità, povertà e obbedienza analogamente alle persone sane che si prendevano cura di loro, i cosiddetti “conversi”.
In alcuni casi lo sforzo sembrò approdare al successo, se si deve badare agli statuti di qualche lebbrosario. Ma gli stessi statuti mostrano diversità in proposito. Nella regola vigente nel lebbrosario di Parma, compilata con probabilità nei primi anni del Duecento, l’ammissione nell’istituto degli infermi avveniva con una professione di carattere religioso simile a quella dei conversi, e ai “malsani” di Trento, secondo quanto previsto dagli statuti emanati dal vescovo nel 1241, si offriva la possibilità di pronunciare i voti.
Ordinamenti come quelli di Piacenza e Pavia (1214 e 1216) escludevano invece per i malati lo stato religioso di conversi, indicando (come nel caso di Piacenza) quale sola regola l’astensione dal male nelle parole e nei fatti e la pazienza nel sopportare l’infermità, riducendo a qualche norma di elementare disciplina le costrizioni “religiose”. Un documento veronese che rispecchia la situazione del lebbrosario locale degli anni 1223-1225 fa parlare i malati ed esprime la coscienza che essi hanno di non potere essere assimilati a coloro che professavano i voti, offrendosi all’istituto con un formale rito di oblazione, in quanto si ritenevano incapaci di reggere i pesi della vita religiosa in senso stretto. È una delle rarissime testimonianze in prima persona dei “malsani“: tanto più interessante in quanto mostra direttamente gli ostacoli intrinseci al volere della Chiesa di una completa e reale introduzione del lebbroso alla condizione religiosa.

G. De Sandre Gasparini, La pietà oltre il muro. Lebbra e lebbrosari nel Medioevo, in Storia e Dossier 72, aprile 1993, p.42

TRACCE DI PIACENZA/1

Non sempre l’igiene personale era sconosciuta: anche ritenendo una misura d’eccezione (dovuta alla circostanza) la pulizia integrale degli ammalati al momento del loro ricovero in qualche grande ospedale (accadeva così, per esempio, per il S. Maria della Scala di Siena, nel Trecento), alcune parti del corpo erano usualmente sottoposte a pulizia. Così era per le mani, che di norma venivano lavate prima e dopo il pasto, almeno nei grandi banchetti e fra la nobiltà. Non è senza significato, del resto, che nei corredi di nozze delle aristocratiche o delle ricche borghesi non mancassero mai bacili, “mesciroba” (brocche per l’acqua) e asciugamani destinati a questo uso. Molto probabilmente fra la gente del popolo le cose andavano in maniera diversa, almeno se dicono il vero le feroci descrizioni dei novellieri; certo il sapone era una merce ricercata e costosa (nel 744 Liutprando ne faceva dono in buona quantità alla Chiesa di Piacenza “ad pauperes lavandos”, per lavare i poveri, con un atto che parve degno di essere ricordato per scritto), tanto che le tariffe doganali cui era sottoposto raggiungevano, almeno nel Piemonte del Duecento, i livelli delle più preziose sete o velluti.

D. Balestracci, L’igiene nel Medioevo. Le castellane al bagno, in Civiltà 13, luglio 2011, pp.16-18