DOMANDE D’ESAME PER CONCORSO PUBBLICO

Logica e filosofia (!):

Quali metodi sperimentali possono venir usati per determinare l’autentico antecedente in fenomeni per i quali sia possibile una pluralità di cause.

Classificate gli errori.

Filosofia morale (!!):

Descrivete le diverse circostanze di situazioni che danno origine al piacevole senso del potere. [Classica domanda trappola!]

Specificate, per quanto vi riesce possibile, i diversi doveri che possono venir compresi nell’unica parola: Giustizia.

Elencate gli argomenti pro e contro l’utilità, considerata come la base (1) effettiva e (2) giusta della morale. (*)

Ma a quale caspita di amministrazione vogliono accedere i candidati di un simile concorso?!
Risposta: l’Indian Civil Service, l’amministrazione civile che governò l’India britannica fino all’indipendenza.
Un’amministrazione che nel 1939 aveva 1384 funzionari al servizio di circa 400 milioni di persone, ma che sino alla fine dell’800 non reputò quasi mai necessario elevarne il numero sopra ai 900.
Ragazzi di 18 anni che nel 1859 facevano a cazzotti per andare dall’altra parte del mondo ad amministrare la parte più importante dell’impero e che – soltanto due anni dopo la rivolta dei sepoys, un’orgia di sangue, violenze e massacri quale l’impero aveva mai conosciuto – venivano selezionati innanzitutto in base alle loro abilità logico-dialettiche, o alle concezioni etiche da essi abbracciate, o alle conoscenze di storia, brutalmente mnemoniche e nozionistiche:

Enumerate le principali colonie inglesi, e dite come e quando l’Inghilterra abbia acquistato ognuna di esse.

Elencate i successivi governatori generali dell’India fino al 1830, con le date dei loro rispettivi governi, e stilate un breve sommario delle principali transazioni che sono state condotte con l’India sotto ognuno di loro.

Evito di chiedermi se gli attuali metodi di selezione del personale amministrativo delle nostre regioni e provincie siano davvero più indicati a individuare gli elementi migliori e più adatti al servizio, e se l’esito delle nostre selezioni dia luogo ad amministrazioni migliori.
Senza parlare della dimensione numerica dell’intero apparato.

(*) da N. Ferguson, Impero, Mondadori 2009, ISBN 9788804589471, p. 160. Qui il libro, qui una recensione.

ESSERCI

Il mio oroscopo dice che “in questa prima parte del 2011 si legge un senso di grande agitazione e scontentezza. I disagi saranno parecchi e potranno riversarsi anche nella vita sentimentale“.
Invece quello di mio marito dice che “Giove, il grande Giove, si trova molto bene nel vostro segno di Terra, forse perché sente il respiro di Venere; riesce a dare molto sotto il profilo dei soldi e dell’amore, tiene unita la famiglia“.
Io un po’ me ne fotto di Urano e di Giove e conto che anche quest’anno possiamo farcela.
Che possiamo continuare a pagare il mutuo e finire di pagare la macchina e poi, forse, andarcene al mare questa estate e raccogliere conchiglie.
Io conto di sentire ancora la rabbia arrivare come uno tsunami nella testa e subito dopo crollare per la stanchezza, di ritrovarmi ancora qualche volta ad arrossire e ad avere le farfalle nella pancia.
Conto di riuscire a non essere mai indifferente, conto di avere la casa piena di gente e un divano letto da preparare. Conto di riuscire un giorno ad entrare in ufficio senza quel senso di nausea e aspetto ancora di diventare grande e sapere gestire i conflitti senza morirci sotto.
Conto di aprire ancora qualche volta la porta di casa e di trovarti solo e avere insieme lo stesso pensiero.
Insomma io conto, anche quest’anno, di esserci. E che ci siate anche voi.

LOGICA BELPIETRISTA

Fossi nei carabinieri di Varese risparmierei tempo: senza tirare a mano le soffiate della mala di Gemonio, Azzio e Orino, tanto meno quelle dei puttanoni della zona, mi affiderei al succo della ferrea logica belpietrista e punterei direttamente a casa del Trota, requisendogli i petardi che ha preparato per l’ultimo dell’anno e chiedendogli se ha un alibi per ieri notte.

ARGOMENTO ONTOLOGICO PER MATEMATICI

L’insieme di Mandelbrot non è stato certamente un’invenzione di qualche mente umana. L’insieme esiste oggettivamente soltanto nella matematica stessa. Se ha senso assegnare una reale esistenza all’insieme di Mandelbrot, questa esistenza non è nelle nostre menti, perché nessuno può afferrare completamente l’infinita varietà e l’illimitata complicazione di questo insieme. La sua esistenza non può neppure trovarsi nella moltitudine di tabulati sfornati dai computer che cominciano a catturare parte della sua incredibile sofisticazione e della ricchezza di dettagli, poiché questi tabulati possono al più catturare un’ombra di un’approssimazione all’insieme. Esso, tuttavia, ha una forza al di là d’ogni dubbio; la stessa struttura, infatti, si rivela – in tutti i suoi dettagli percepibili, con sempre maggiore finezza quanto più è esaminato da vicino – qualunque sia il matematico o il computer che lo esamina. La sua esistenza può trovarsi solo nel mondo platonico delle forme matematiche.
(R. Penrose, La strada che porta alla realtà, 1.3)

E già se da questo solo fatto che posso trarre fuori dal mio pensiero l’idea di qualche cosa, ne consegue che tutto ciò che percepisco in maniera chiara e distinta come propria di quella cosa, realmente le appartiene, da ciò non si può forse trarre anche la prova dell’esistenza di Dio? Certo trovo in me l’idea di lui, cioè di un ente sommamente perfetto, non meno che l’idea di qualsiasi figura o numero; e non comprendo meno chiaramente e distintamente che l’esistenza eterna è propria della sua natura, di come che ciò che dimostro di qualche figura o numero riguarda anche la natura di tale figura o numero; e dunque, sebbene non tutte le cose, che in questi giorni passati ho meditato, risultassero vere, almeno l’esistenza di Dio dovrebbe essere presso di me nello stesso grado di certezza, nel quale sono state fino ad ora le verità della matematica.
(Cartesio, Meditazioni metafisiche, V, 7)

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe piú grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.
(Anselmo d’Aosta, Proslogion, 2-3)

Sono circa a pagina 30 di quell’enorme e affascinante mattone che è La strada che porta alla realtà, di Roger Penrose. Trenta pagine, la maggior parte delle quali impegnate a discutere filosoficamente sullo status delle verità matematiche. E io mi chiedo: ma perché?!
L’impressione è infatti quella di trovarsi di fronte ad una sorta di excusatio non petita, visto che nell’immaginario collettivo “Scienza? Funziona!”, “Matematica? Funziona!”, mentre “Filosofia? Pippa mentale!”. Eppure, non so, c’è qualcosa di strano. Come se il semplice dire “Funziona!” risultasse insoddisfacente agli stessi matematici, e la ormai secolare disputa sui fondamenti della matematica non fosse per niente conclusa. Ma vabbè, chissenefrega, il problema è loro, dei matematici.
Però nel mio piccolo, e nel caso specifico, mi stupisco sempre del come sia possibile per scienziati e matematici fare affermazioni apodittiche che difficilmente sarebbero perdonate a un filosofo, e meno che mai a un teologo.
No, dico: Penrose sostiene l’obiettività della verità matematica riconducendola esplicitamente all’esistenza di un mondo platonico, “un oggettivo modello esterno che non dipende dalle nostre opinioni individuali“, del quale sostiene l’esistenza con argomentazioni in fondo non dissimili dal famigerato argomento ontologico di Anselmo e Cartesio.
Ora, il problema non è innanzitutto la plausibilità o la modalità di esistenza di un simile mondo (che già pure è un bel casino).

Il problema, a mio parere, è che in questo modo il Penrose finisce per unirsi al vasto gruppo di matematici (e scienziati?) che tuttora continuano a ridurre (a elevare?) la matematica (la scienza?) a metafisica, senza rendersi conto che in questo modo finiscono per esporre la matematica (e la scienza) alle stesse identiche critiche e allo stesso identico processo decostruttivo che da Nietzsche in poi hanno compromesso prima le basi, e poi l’esistenza stessa della metafisica.
Ed è inutile rifugiarsi dietro il solito “ma la Scienza funziona!”: ad essere in discussione non è il fatto che la scienza e la matematica funzionino o meno, e il fatto di funzionare o meno di per sé non significa un bel nulla dal punto di vista filosofico. Questa pacifica e non pensata (ri)assimilazione della matematica alla metafisica dovrebbe essere una buona occasione per (ri)cominciare a riflettere sul vero problema, che non è tanto il fatto che la matematica e la scienza funzionino o meno, ma sul come sia possibile che funzionino.
A maggior ragione se – orribile a dirsi! – si poggiano su basi metafisiche.

RIORDINARE L’ANIMA

Sistemare il ripostiglio è un po’ come fare ordine nell’anima.
Svuoti tutto e liberi la mente poi ti giri e guardi sparsi per terra i pezzi di tutta una vita.
Adesso non resta che rimettere dentro un pezzo alla volta, scegliendo cosa tenere e cosa invece è venuto il tempo di buttare perché tutto non ci può stare.
Le valige le rimetto in alto e sono i viaggi che ho fatto ma soprattutto i viaggi che ancora devo fare.
Sono il regalo più bello, il primo volo in aereo e Barcellona ai miei piedi.
Poi ci sono un sacco di scatole grandi e colorate. Dentro ci tengo i disegni dei miei figli, i loro primi temi: “la mamma (…) e il mio papà la fa sempre ridere”. E le cartoline, le lettere e i bigliettini.
Ti ricordi cosa mi hai scritto quando io e il mio pancione abbiamo preso la patente?
Nella scatola blu ci sono i colori a olio, le spatole e i pennelli , ci sono i miei quadri, quelli che dipingevo quando ero una persona migliore e che non ho mai appeso.
Poi ci sono tutte le cose rotte, il vecchio cordless e la segreteria telefonica; in quella cassetta piccola piccola c’è la voce di mio padre che forse un giorno avrò voglia di riascoltare. E c’è il proiettore che non potremo mai più riparare perché le lampade non le fanno più da vent’anni  ma ho dieci scatole di diapositive del viaggio di nozze dei miei e di quando ero piccola e quella di mia madre sull’altalena a Ostia che aveva ventiquattro anni e era così bella.
Niente. Qui non c’è niente di cui possa fare a meno.
Non si può buttare la collezione di francobolli di Leo e neanche la borsa di pelle che gli ho regalato per la laurea, non importa se non si chiude più. E il Subbuteo? Neanche a parlarne.
Faccio passare le scarpe e scopro di avere cose che non pensavo di avere ed è un po’ come ricevere dei regali. Scopro una collezione infinita di buste di carta e di plastica, appendiabiti da bambini e non e migliaia di sacchetti trasparenti che “si sa mai possono servire per riporre i maglioni”.
Saltano fuori barattoli di detergenti che non ho mai usato, confezioni vuote di qualunque cosa.
Cerco di separare i ricordi dalle psicosi.
Si può far meglio ma è già qualcosa.
Cinque sacchi di roba da buttare e gli scaffali in ordine. Mezzo piano a disposizione.
Per terra non c’è più niente.
Tutto ha di nuovo un posto.

FITTE DI NATALE

Il Natale, a me, mi fa male.
Ma intendo un male fisico. Come di punta al fianco, però non intenso: continuo, costante, sordo.
Non c’è una ragione.
O almeno, credo che non ce ne sia solo una.  Piuttosto è un insieme di ragioni. Così, più che un male è una sindrome. Una bella sindrome di Natale.
Una ragione è che non son più capace di godere del Natale come quando ero bambino, o anche solo ragazzo. Non ho più quell’eccitazione, quel gusto del conto alla rovescia, quella voglia di gustarmi ogni istante, il prima e il durante. Non son più capace nemmeno di sentire la tristezza del dopo. Il tempo degli adulti mi ha preso e macinato, quel tempo fatto di istanti numerabili e uguali l’uno all’altro, privi di individualità, ai quali non basta appiccicare un’etichetta (Natale, Pasqua, compleanno, anniversario) per regalare un’unicità.
Un’altra ragione è che purtroppo mi viene spontaneo, prima di pensare alle persone con cui trascorrerò il Natale, pensare a quelle che non ci sono più. Alcune perché son morte, ed è chiaro che lì la fitta si fa più lancinante. Altre perché se ne sono andate: hanno incrociato la mia vita e il mio destino, poi se ne sono allontanate. Altre ancora le ho perse di vista, lentamente e quasi inavvertitamente. Ma in questi giorni il loro volto ritorna alla memoria e reclama l’offerta di un sospiro di rimpianto.
Un’altra ragione ancora è che, più passa il tempo, più avverto la sproporzione, direi l’incommensurabilità, tra quel che penso, quel che credo, quel che so essere il Natale, e la mia incapacità di avere per questo uno sguardo diverso sulla realtà, sulle persone e le cose. Divento sempre più inadeguato e incapace davanti alla bellezza e alla novità. E sempre più incline alla malinconia e all’autocommiserazione. Ma l’accorgermi di questo mi fa male, ed ecco ancora la fitta al fianco.
Ma ancora penso, sento, – credo mille volte migliore sentire questa fitta che non sentirla affatto.
A tutti voi, ora che il giorno è trascorso – e che siamo tutti minacciati dall’effetto Sera del dì di festa – auguri di buon Natale, e di una buona fitta.

PERSEVERARE E’ FEMMINA.

Questa idea è nata nel 2005, quando lei voleva scrivere sul blog di lui invece fu costretta ad aprirne uno tutto suo. Poi è arrivato Facebook e i blog si sono spenti. E’ stato allora che abbiamo dato un nome all’idea e Lettiseparati è diventato argomento di esperimenti e discussioni. Nell’ottobre 2010 grazie al tempestivo avviso di chiusura di Blog-City e alla pazienza della Cate l’idea è diventata un dominio tutto per noi. Novembre l’abbiamo passato a cercare foto e testare template col supporto tecnico della Vale e l’occhio esperto della Bea. Oggi Lettiseparati è il regalo che ci facciamo.
E’ il nostro posto nuovo.
Nessuno degli amici di lei è costretto a leggere i pipponi di lui.
Nessuno degli amici di lui è costretto a leggere delle vicende di lei.
I nostri amici comuni possono fare come facevano prima.

Buon Natale.