COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 12

Bertagna. Non è propriamente un Carneade, almeno in ambito scolastico. Ma per tutto il resto del mondo: chi caspita è Giuseppe Bertagna?!
Giuseppe Bertagna è quel povero Cristo che si è trovato a presiedere il gruppo di lavoro incaricato di  stendere le basi pedagogiche e culturali della Riforma Moratti.
Ah, bella roba!, mi pare di sentirvi. Eppure, eppure.
Oggi ho imparato qualcosa che sapevo confusamente, che mi ronzava per il cervello, ma che se non mi capita, come è capitato oggi, di doverci perder su qualche mezzorata di lavoro non si traduce mai in una consapevolezza piena. E così, prima lo pensavo, ma adesso ce lo so.
Oggi ho imparato che, per dirla in linguaggio strettamente tecnico-pedagogico: la riforma Moratti era una figata. Spaccava il culo ai passeri. Riforma Moratti rulez.
C’era, nella riforma Moratti, una sapienza e una capacità di armonizzare cultura pedagogica e filosofica, concezione della persona e innovazione didattica, astrattezza teorica e concretezza educativa, recupero della tradizione e visione rivoluzionaria davvero uniche nella storia della scuola italiana. Un’operazione culturale di altissimo livello, della quale Bertagna teneva le fila.
Una riforma di razionalità stringente, direi elegante: ridotta all’osso, si tratta di un procedimento in cui l’ideale (il PECUP, il profilo dello studente in uscita) si traduce nella realtà dell’individuazione delle competenze di cui lo studente dev’essere fornito; e queste competenze diventano così gli obiettivi del mio insegnamento, che metto in atto a partire dalla definizione dei singoli obiettivi di apprendimento, espressi in termini di conoscenze e abilità, che mi devono aiutare a costruire quelle competenze, obiettivi che perciò diventano il fine cui tendo progettando le mie lezioni. C’è il tener conto di quel che lo studente è e di quel che deve essere; il tener conto delle capacità che la natura e il suo sviluppo gli forniscono e delle competenze di cui dev’essere in possesso per affrontare autonomamente la vita; e all’incrocio tra questo essere e questo dover essere ci sono io, l’insegnante, l’attività culturale della scuola.
Non c’è più un sapere fisso, calato dall’alto, che io professore ti trasmetto perché sì, perché qualcuno ha deciso che questo sapere ha valore, e ne ha più di quanto valga io o di quanto valga tu, studente; no, adesso ci sei tu, studente, e io, insegnante. Lo scopo è la realizzazione di te. E il sapere che voglio aiutarti ad apprendere dev’essere strumentale a quel che tu sei, al progetto che tu stesso costruisci su di te attraverso il sapere. Perciò non c’è più un programma, ma delle indicazioni: una direzione, che però sta a me e a te tradurre in strada. Nella riforma Moratti, Comenio e Rousseau vengono alle mani, e Comenio le prende di santa ragione.
Peccato. Perché c’è come un gap triste tra il modo in cui questa riforma è stata concepita, il valore pedagogico e culturale del lavoro di elaborazione che l’ha preceduta, lo sforzo di pensiero che l’ha preparata, e quel che invece è stato fatto passare a tutti noi, operatori dell’istruzione e destinatari, utenti o anche solo semplici cittadini dello Stato italiano.
Non vi fu nessun coinvolgimento degli insegnanti, non dico come soggetti di elaborazione (mica balle, non ne abbiano le competenze, quand’anche insegnassimo da ventordici anni), ma anche solo, banalmente, come operai destinati a far funzionare quell’edificio: ben poco si è investito, insomma, sulla formazione degli insegnanti, sul nostro essere davvero consapevoli delle ragioni di quel che ci veniva chiesto di fare, della sua valenza culturale ancor prima che organizzativa o gestionale. In questo lo Stato ha sicuramente fallito, per motivi ideologici, economici, pratici e quant’altro.
Ma noi insegnanti siamo stati corresponsabili. Ci siamo subito accodati a omogeneizzare la riforma al generale contesto di tifo da stadio fra le opposte tifoserie di berlusconiani e antiberlusconiani; ci siamo spaccati dal ridere sulle tre I come se davvero fossero state il centro della riforma; ci siamo abbeverati agli allarmismi dei sindacati (oh, anche allora era stata uccisa la scuola pubblica, mica solo oggi, altro che walking dead, ‘sta scuola pubblica continuiamo ad ammazzarla e a tirarla su since 1923, e tutte le volte, di fronte a una nuova riforma, ci troviamo a difendere a spada tratta quello che fino a dieci minuti prima definivamo un cadavere); dai sindacati abbiamo accettato di buon grado la tranquillizzante tutela dei diritti acquisiti di chi era nelle graduatorie ad esaurimento ed il sistematico sabotaggio delle SSIS, alcune certo capaci di sabotarsi da sole, ma altre, in quegli anni, capaci di porsi come unico tentativo credibile di dare una reale formazione agli insegnanti, di renderli consapevoli del loro lavoro, di far loro sollevare lo sguardo dal programma, dal libro di testo e dalla lezione.
Dietro la riforma Moratti c’era un lavoro culturale enorme, di cui chi non è addetto ai lavori non conosce che una minima parte. Un po’ perché quasi nessuno si è interessato di farci vedere di più, per calcolo, per necessità, perché non ci sono i soldi per l’aggiornamento e la formazione, per spocchia, per stupidità; un po’ perché, ammettiamolo, di pedagogia e didattica gliene frega niente a nessuno, in primis agli insegnanti, figurarsi al pubblico di tv e giornali, e per il resto del mondo la scuola è quella roba che serve a dare un diploma a mio figlio e bon basta; ma un po’ anche perché siamo stati noi insegnanti a non aver voluto e a non voler vedere di più, perché in fondo in fondo molti di noi sono tuttora convinti che il nostro lavoro sia quel qualcosa che accade in aula dalle 8.00 alle 8.55 tra noi, il nostro testo e quei baluba che abbiamo davanti, e una volta che è suonata la campanella tana liberi tutti. Non dite balle, li conoscete, ce n’è ancora un botto che la vedono così. Gli stessi che poi strepitano se qualcuno dice loro che lavoriamo solo diciotto ore la settimana.

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