COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 17

Riguardo allo scandalone degli iscritti a Ashley Madison, l’articolo di Piacenza24 dà un’idea della dimensione local dello sputtanamento global, ed è piuttosto interessante.
Per dire, a Piacenza risultano 1692 iscritti. A Roma, per fare un confronto, sono 691. La tranquillità della provincia, dicheno.
(Che poi, a ben guardare, in realtà è Roma ad essere stranamente virtuosa, o meglio, a organizzare corna e cornetti ancora in modo analogico: una Milano ben più web-friendly di iscritti ne ha 35337)
Poi ci sono i particolari, dove, come si sa, ama annidarsi il diavolo.
Poche donne su Ashley Madison, si è scoperto. Ma a Rivergaro le donne iscritte erano ben il 30% del totale!
…un totale, per la verità di 25 iscritti, ma la percentuale cruda  fa nettamente più figo.
E poi l’abisso della perdizione: Nibbiano, che dei suoi duemila residenti, bambini e ultranovantenni compresi , ne vede iscritti al sito 145.

Nella foto, 145 fedifraghi. Praticamente, uno per casa

I Presidi dei Licei sono nominati dal Re.
(Legge Casati, Regio Decreto Legislativo n° 3725, 13 novembre 1859, articolo 230)

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 14

Piacenza è dal 1995 la città italiana col maggior numero di testate studentesche. Dice l’articolo sul Corriere che ce ne sono 18 attive ininterrottamente da 30 anni.
Si potrà discutere sulla valenza educativa del giornalino d’istituto e sulla qualità delle singole testate e degli articoli pubblicati. So però che i ragazzi che ci lavorano dentro (una ventina per ogni redazione scolastica) ci mettono voglia, passione e tempo, e portano a casa una maggiore confidenza col testo stampato e la strana idea che si possa esprimere quel che si pensa, e, ancor prima, che si debba pensare qualcosa.
Ma la cosa straordinaria è quest’uomo, che segue da trent’anni il mondo dei giornali d’istituto piacentini, il prof. Schinardi, splendido settantacinquenne che io ricordo come insegnante di italiano e latino di mio fratello, all’epoca adolescente pseudorivoluzionario da salotto (ehm, ciao Vito) ma letteralmente invaghito di questo strano prof che in un’epoca di alternatività obbligatoria e di conformisti controcorrente riusciva a far amare la letteratura italiana a chi reclamava il sei politico. E adesso che è in pensione è ancora lì che non molla, che coordina, motiva, spinge e organizza. Ce ne fossero, ancora.

Gli obiettivi di apprendimento relativi alla scrittura in lingua italiana al termine della scuola primaria, come elencati dalle Indicazioni per il curricolo – 2007, non sono alla portata di un buon 50% degli utenti dei social network. E sono stato basso.

Paasilinna, Piccoli suicidi fra amici.
Ho imparato che per Paasilinna il suicidio è irragionevole, sempre. La vita è cambiamento, mutamento, variare di circostanze. L’attimo che viene può portare con sé occasioni e incontri che rendono meno rilevante quanto è accaduto prima. Perfino tentare il suicidio può rivelarsi fonte di cambiamento ed essere la circostanza attraverso la quale la vita cambia. Il suicidio è un’impennata della volontà, ha senso se hai deciso che sei tu che decidi. Ma è una decisione, appunto. E come per quelli che dicono oh, insomma, io la penso così, mica è detto che se lo pensi, se lo decidi, sia vero.
Paasilinna descrive una specie di TripAdvisor dei posti d’Europa dove è più figo suicidarsi, ammesso che lo si voglia fare in massa e in modo spettacolare, tipo lanciandosi nel vuoto dentro un pullman. Il must pare essere Capo Nord. A giudicare dalle foto c’è andato in vacanza mezzo Feisbuc. Coincidenze? Mah.
In subordine vanno fortissimo i burroni delle Alpi svizzere, ma anche l’Algarve non è male, in faccia all’Atlantico, alla Fortaleza de Sagres.
E poi ho imparato che Il portoghese deriva dal tardo latino, e il sami dal bramito delle renne.

Regio Decreto 1054 del 6 maggio 1923. Un pezzettino di riforma Gentile: si decide che presidi e professori vadano in pensione a 70 anni. L’aspettativa media di vita alla nascita era di 51,1 anni. ‘Na truffa. L’Inps doveva essere miliardario.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 04

Credevo che il Monte Bianco fosse stato scalato, ad essere generosi, nel milleottocentoequalcosa. E invece, grazie al doodle di Google di oggi, scopro che la prima scalata è del 1786. Non mi capacito. Mi immagino uomini dell’ancien regime, in calze di lana, sciarponi e parrucca, affrontare un’impresa che io oggi eviterei non fosse che per risparmiarmi la spesa dell’attrezzatura. Invece questi, hop hop, e vanno su vestiti da honnête homme di fine Settecento. Nel 1808 va su perfino la prima donna, in gonnellona plissettata e stivali fino alle ginocchia. Un altro pianeta.

Oggi è la storia a farla da padrona. Grazie al ClassiCult del Fraccalvieri, leggo la notizia della scoperta del monolite sommerso al largo della Sicilia, a metà strada da Pantelleria. Là dove oggi non c’è che acqua a perdita d’occhio, i Siciliani del Mesolitico drizzavano menhir da decine di tonnellate. Stiamo parlando di undicimila anni fa. Nemmeno erano nati i quadrisavoli degli spermatozoi del primo celta padano! I romani non esistevano nemmeno a livello di antenato di Enea, Troia era ben lungi dall’essere una città e già i siciliani modellavano pietroni megalitici. Sono undicimila anni che lavorano, ci credo che oggi sembrano prendersela un po’ comoda: è stanchezza. Unita alla saggezza e al disincanto di chi era al centro di una civiltà dalle caratteristiche omogenee sparsa per buona parte del Mediterraneo in un’epoca in cui il Mediterraneo, come lo conosciamo oggi, nemmeno esisteva.

Non tutti nella capitale nascono i fiori del male. Qualche testa di minchia senza pretese l’abbiamo anche noi in paese, e così stamattina scopro che a meno di due, trecento metri da casa mia un esemplare rappresentante della categoria ha passato la notte a dar fuoco alle automobili. Quattro, per la precisione. La Kia l’ho subito spostata in garage, penso che stanotte chiederò al figlio di dormire nella 106.

Il gioco 20 Questions, nelle sue versioni da tavolo e elettronica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosino e stucchevole), nasce paro paro da una strategia pedagogica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosina e stucchevole) inventata dal solito Bruner per stimolare negli alunni l’apprendimento per scoperta. Agli allievi veniva proposto un problema, e avevano a disposizione appunto venti domande per trovare la soluzione. La strategia giusta è partire dalle domande più generali per poi restringere progressivamente il campo, chevvelodicoaffà.

Il tutor è colui che affianca nell’apprendimento o nella scoperta il soggetto in apprendimento: lo sanno pure li cani, e quindi lo sapevo pur’io. Ma come si chiama il soggetto in apprendimento? Forza, potete farmi venti domande.

Eh eh.
Si chiama tutee.

Esiste un bug che si chiama white screen of death. In pratica, tu ci hai un blog, entri nell’amministrazione col tuo username e la tua bella password, e lì trovi il nulla. Cioè, io trovavo a lato la serie di opzioni e di funzioni, ma a cliccarci sopra non succedeva nulla: il resto dello schermo restava, appunto, bianco. Ma se hai una nipote geniale, esperta di informatica e al nono mese di gravidanza (così che non possa fuggire da nessuna parte, grazie Caterina :)), la sventurata può farti la diagnosi, il backup, l’aggiornamento all’ultima versione di Wp e restituirti il blog spolverato, lindo e funzionante come non mai, ed è subito, ancora e sempre, 2003!

TRACCE DI PIACENZA/15

(NdR: in quell’avvenimento epocale che fu la discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494, la tappa piacentina fu in qualche modo decisiva. Fu proprio durante il soggiorno piacentino, infatti, che il re dovette mutare le proprie intenzioni, e rinunciare così a percorrere la via Emilia fino in Romagna per puntare direttamente su Firenze. Con tutto il casino che ne derivò)

Partitosi il re da Pavia, giunse in Piacenza dove Ludovico avuto novelle che il Duca di Milano suo nipote si moriva, prese commiato per andarvi. Pregollo il Re che ritornasse tosto, e egli così gli promise.
Ma prima, che giungesse a Pavia, morì il Duca, e Ludovico volando andò a Milano. Io lo seppi per le lettere dell’Ambasciatore Veneziano, ch’era con esso lui, il quale lo scriveva alla sua Repubblica; avvisandola, che egli si voleva far Duca, cosa sommamente odiosa a quella Signoria, la quale mi dimandò se il Re prenderia la protezione del fanciullo e avvenga che, ciò fosse molto ragionevole, io il posi in dubbio, atteso il bisogno, che il Re aveva del Sig. Ludovico.
In breve, egli si fece ricevere per Signore: e questo fu il fine (come molti dicevano) per lo quale ci aveva fatti passar i monti, imputandolo della morte del nipote, i parenti, e amici del quale s’erano messi in arme, e venuti in Romagna, (come io dissi) per torr’il governo a Ludovico, e agevolmente saria loro succeduto, se il Re non fusse stato in Italia. Ma avendo eglino incontra il conte di Caiazzo con gli Italiani, e Monsignor d’Aubigni con ducento uomini d’arme Francesi, e un numero di Svizzeri, Don Ferdinando fu costretto a ritirarsi verso Forlì, di che n’era Signora una bastarda de gli Sforza di Milano, vedova del Conte Girolamo, che fu nipote di Papa Sisto IV. Dicevasi costei essere amica d’Aragonesi, ma avendone i nostri preso d’assalto una sua piccola terra, battuta solamente due giorni, essa Signora s’accostò volentieri a noi, mostrandoci grande inclinazione. Cominciarono allora i popoli d’Italia, desiderosi di novità, a prender animo, vedendo cosa non più veduta a lor tempi, e questo era il condurre, e maneggiare con tanta facilità grandissimo numero d’artiglieria, il cui esercito non era mai per l’adietro stato così ben inteso nella Francia, come allora. Ferdinando avvicinandosi al regno si ridusse a Cesena, buona città della Chiesa, nella marca d’Ancona; ma avendo questa sua ritirata più sembiante di fuga, che di altro, ciascuno dunque trovava in disparte i somieri, e le bagaglie, senza alcuno rispetto, le saccheggiavano. Ne v’ha dubbio che si sarebbono quasi tutti ribellati, se i nostri, lasciando le ruberie, e le violenze, si fussero partiti moderatamente, e con buon ordine, ma facevano tutto in contrario; di che io n’ebbi grandissimo dispiacere, per la gloria, e fama, che si poteva acquistare in quel viaggio la nazione Francese. Conciosia che dal principio i popoli ci riverivano al pari d’uomini Santi; dandosi a credere ch’in noi fusse ogni fede, e bontà; ma cotal opinione non durò lor gran fatto, si per nostra propria colpa, come anco perché i nemici pubblicavano in ogni contrada noi essere pessima generazione di gente, la quale da per tutto rubava le donne, i denari, e i beni altrui. E nel vero non ci poteva essere attribuita maggiore infamia, e dicevano in parte la verità.
Lasciai il re a Piacenza, dove egli fece fare solenni esequie al Duca di Milano suo cugino germano; e io mi credo che egli non avesse guari altro, che farsi, atteso che Ludovico novello Duca di Milano s’era partito da lui. M’hanno detto alcuni (che lo dovevano saper molto bene) che i nostri temendo, e non sapendo ben di che, furono presso a ritornarsi indietro, massimamente vedendosi sprovveduti da tutte le cose. Oltrache molti, che lodarono già quel viaggio, al presente lo biasimavano, come fece per sue lettere, il Signor d’Urfè gran Scudiero, il quale essendo restato in Genova ammalato, pose il Re in gran sospetto, di cosa, di che diceva essere stato avvertito, ma (come altrove ho detto) Iddio mostrava di essere, quello, che conduceva l’impresa. In quella alterazione di mente ebbe novella il Re, che il Duca di Milano ritornava in campo, e che le cose di Firenze erano in moto, per le inimicizie, e invidia, che Pietro de’ Medici s’aveva tirata addosso, vivendo non alla Cittadinesca, ma come se stato fusse prencipe assoluto di quella Città; onde molto onorevoli famiglie, Capponi, Soderini, Nerli, e altre assai, le quali non potevano tollerare tanto fasto, e ambizione, diedero occasione a Pietro di partirsi da Firenze. Andossene diritto ad alcune terre deboli dello Stato, per farle sue, e potervisi ridurre nella vernata, la quale già era incominciata. Alcune delle quali si dichiararono a suo favore (come anco fece Lucca, nemica del nome Fiorentino) le quali tutte diedero al Re ogni comodità, e servizio. Il Duca di Milano ebbe sempre, mira, e fine di due cose principali, che il Re non passasse più inanzi in quella stagione, e che a lui fussero date Pisa, (Città nobile e grande) Sarzana e Pietrasanta. Le due ultime furono dei Genovesi, poco tempo prima, acquistate in guerra da Fiorentini a tempo di Lorenzo de Medici.
Il re prese la strada per Pontremoli, terra del Ducato di Milano, e andò assediar Sarzana fortissimo castello, e uno de’ migliori, che s’avessero i Fiorentini, ma per le divisioni loro sprovveduto d’ogni cosa…

Philippe de Commynes, Delle Mémorie Di Filippo Di Comines, Cavaliero, & Signore d’Argentone, Intorno alle principali azioni di Lodovico Undicesimo, e di Carlo Ottavo suo figliolo, amendue Re di Francia, Venezia 1640, pp. 237 s.

 

TRACCE DI PIACENZA/14

I negotiatores di Asti e di alcune città vicine  (Alba, Chieri, Cuneo, Torino, Vercelli, ecc.), i quali, – negli ultimi anni del secolo XI – stabilirono legami commerciali con la Francia, furono – intorno al 1200 – i principali intermediari fra Genova e i paesi del Nord, e – nel corso del secolo XIII – mantennero costanti rapporti d’affari con le fiere della Champagne e con altri centri del commercio transalpino. A partire dagli ultimi anni del secolo XII, essi furono seguiti al di là delle Alpi, in Francia, nelle Fiandre, nella Germania meridionale, in Inghilterra, da mercanti di Milano, Piacenza, Bologna e (in minor numero) di Lodi, Cremona, Parma e forse Bergamo e Monza.
Di tutti costoro (in mancanza di notizie più precise su Milano) i più influenti furono i mercatores piacentini, i quali per quasi due secoli (dal principio del secolo XII alla fine del XIII), giovandosi della posizione strategica di Piacenza a cavallo delle grandi vie di comunicazione continentali lungo il Po, attraverso i valichi alpini e al di là degli Appennini fino a Genova, costruirono una vasta rete di scambi internazionali con i paesi dell’Occidente e dell’Oriente, diventando una delle principali potenze commerciali d’Europa. In Occidente essi conquistarono una posizione dominante nel commercio per via di terra fra Genova (e Marsiglia) e la Champagne; stabilirono legami con la Francia, le Fiandre, l’Inghilterra e la Germania; assunsero in certi periodi, verso la fine del secolo XIII, un ruolo di guida nella comunità mercantile italiana alle fiere di Nîmes e della Champagne; in Oriente parteciparono alla prima Crociata, operarono in epoche diverse in Africa, Egitto, Siria, Palestina, Armenia (Laiazzo) e Persia (Tabriz); furono tra gli ultimi italiani ad abbandonare gli Stati crociati per stabilirsi a Cipro (soprattutto gli Scotti, il cui raggio d’azione, nel 1301, andava da Famagosta a Bruges).

Ph. Jones, La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. 4: Dalla caduta dell’Impero Romano al secolo XVIII. L’economia delle tre Italie, Einaudi – Il Sole 24 Ore, 2005, pp. 1719 s.

TRACCE DI PIACENZA/13

Scontri violenti tra gli abitanti di Ravenna (…) si ripetevano ogni domenica. Scontri durissimi, quasi all’ultimo sangue: ci si fermava solo al momento di infliggere il colpo definitivo all’avversario: e anche così i morti non erano infrequenti.
Sorge allora subito spontanea la domanda sull’origine di questo uso. Prima di tutto va detto che durante il Medioevo “giochi” del tipo di quello ravennate erano usuali in quasi tutta l’Italia centrosettentrionale, sia nel periodo più antico sia durante l’età comunale (che anzi mostra un infittirsi delle testimonianze in questo senso per il netto aumento della quantità delle fonti disponibili). Le fonti provano la diffusa partecipazione della popolazione, senza distinzioni di strato sociale, a queste zuffe, che avevano nomi diversi, ma che in genere si chiamavano “battaglia” (pugna, battagliola, bellum) oppure “gioco” (ludus). Nel nome, poi, si faceva talvolta riferimento alle armi come elemento di specificazione (gioco o battaglia con i bastoni, le mazze, le clave, gli scudi e così via). Esse si svolgevano in luoghi aperti, ben individuati, spesso fuori delle mura, ai quali è rimasto il nome di “campo” o “prato di battaglia”.
Nel 1090 a Piacenza i combattimenti si svolgevano in un terreno vuoto, compreso fra una chiesa e una strada; altre prove toponomastiche simili vengono, per esempio, da Modena e da Perugia. In quest’ultimo caso il luogo dello scontro è perfettamente documentato (il ludus battaglie, il gioco della battaglia ben noto fin dal Duecento, continuò fino al Quattrocento inoltrato): si trovava sotto l’attuale piazza Matteotti ed era delimitato da un muro.

S. Gasparri, Giochi di guerra. Gli scontri cruenti tra fazioni cittadine, in Storia e Dossier 55, ottobre 1991, pp. 41 s.

 

TRACCE DI PIACENZA/12

La rottura tra Gregorio VII ed Enrico IV non fu immediatamente successiva al decreto sulle investiture: solo che il re mostrò di non tenerne conto, inviando in Lombardia uno dei suoi fedeli, il conte Everardo, che, radunata una dieta a Roncaglia, fece eleggere Tedaldo, suddiacono milanese e cappellano del re, nuovo arcivescovo di Milano – nonostante ancora vivesse il candidato della pataria, già approvato dalla sede apostolica –  e investendo negli stessi mesi dei vescovadi di Fermo e Spoleto, rimasti vacanti, due persone a lui fedeli e sconosciute al papa. Si trattava del rafforzamento e dell’estensione anche all’Italia di quella politica ecclesiastica che si connetteva intimamente per Enrico al problema del rafforzamento della compagine del regno. Alle proteste di Gregorio VII e alle minacce di scomunica e di deposizione, Enrico rispose nel gennaio 1076 con le assemblee di Worms e di Piacenza, dove gli episcopati rispettivamente tedesco e lombardo decretarono la deposizione di Gregorio VII. La replica di Gregorio fu nel concilio romano del febbraio la deposizione di Enrico, la sua scomunica e lo scioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà.
Iniziava così una rottura che, a parte brevi ed effimeri compromessi, sarebbe durata quasi cinquant’anni, rompendo quel mito della concordia e reciproca collaborazione fra papato e Impero, al quale si richiamavano i teorici di una presunta restaurazione carolingia.

G. Miccoli, La storia religiosa. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol. 2: L’Italia religiosa, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, p. 502

TRACCE DI PIACENZA/11

L’idea della presenza di Dio tra i combattenti per la propria città si manifesta talvolta anche nei moduli narrativi usati per salutare i successi della propria parte. Nell’aprile 1175 Federico Barbarossa cerca di conquistare Alessandria, irriducibile al duro assedio, facendo scavare una galleria che passando sotto le mura avrebbe dovuto sboccare nel mezzo della città; aveva dato assicurazione che avrebbe rispettato la Pasqua e invece proprio la mattina della santa domenica egli attaccò battaglia: «Ma Dio combatté per i cittadini, e tutti coloro che si trovavano nella galleria e sulla torre di legno… morirono, e la torre fu bruciata». Nel giugno 1215 gli Annales placentini registrano il fallimento di una spedizione cremonese contro la loro città «divina potentia et civium Placentiae protectione», come nel luglio dello stesso anno un’altra incursione cremonese fallisce «divina misericordia et virtute atque auxilio militum et sagittariorum».

G. Miccoli, La storia religiosa. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol. 2: L’Italia religiosa, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, p. 600

 

TRACCE DI PIACENZA/10

Un’altra complicazione, nella lotta di classe del primo Duecento, fu la frequente presenza di nobili nella direzione del movimento di popolo. Ma ciò era avvenuto già nel secolo XI a Milano, al tempo di Lanzone, capitaneus in guerra contro i capitanei, e significava soltanto la necessità per la popolazione non nobile, nel corso della lotta, di scegliere capi dal ceto militarmente più esperto, sfruttandone le discordie interne. Del resto il contrasto fra le fazioni nobiliari, in gara per il predominio politico, non poteva non intrecciarsi con il conflitto di classe: che esprimeva una tensione sociale, ma si poneva anch’esso su un piano schiettamente politico. Ciò anzitutto in quanto l’opposizione alla classe dei nobili era alimentata dall’esigenza di porre un freno alla violenza appunto, con cui le consorterie contendevano per conseguire il potere nell’organismo comunale: basti pensare agli anni di guerriglia, di barricate, di incendi che afflissero Firenze dal 1177 al 1179, quando la consorteria degli Uberti insorse contro la lunga prevalenza della coalizione capeggiata dai Donati. D’altra parte, questa volontà popolare di presenza politica, intesa a costringere i nobili a metodi nuovi nella lotta per il potere, si complicò normalmente con una precisa richiesta di partecipazione effettiva al governo cittadino e di spartizione equilibrata delle cariche comunali, e si tradusse talvolta in una integrale, pur se ancora provvisoria, conquista dell’organismo comunale da parte del popolo: come avvenne a Piacenza nel 1220, quando i milites abbandonarono la città, tornandovi più di un anno dopo per l’intervento pacificatore di un legato papale.

G. Tabacco, La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’impero alle prime formazioni di Stati regionali, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol.1: La società medievale e le corti del Rinascimento, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, pp. 184 s.

TRACCE DI PIACENZA/9

Le attività della commissione insediata a Ravenna sotto la direzione dell’arcivescovo del luogo, Rinaldo da Concorezzo, sono ben note. Istituita nel settembre 1309, essa sovrintende alle inchieste diocesane. Poi, conformemente alle direttive della bolla Faciens misericordiam, è riunito un concilio provinciale; tiene due sessioni, nel gennaio e nel giugno 1311, nel corso delle quali sono esaminati i verbali. I templari di Piacenza, Bologna, Faenza compaiono ancora un’ultima volta. Sono dichiarati innocenti anche dall’inquisitore francescano; solo i due inquisitori domenicani criticano l’arcivescovo e rifiutano la sentenza. Si rivolgono al papa, che ordina all’arcivescovo di riprendere l’inchiesta, rimproverandolo di non aver applicato la tortura. Rinaldo da Concorezzo, che non riconosce la validità delle confessioni ottenute sotto tortura, rifiuta e chiude la vicenda. I suoi colleghi di Pisa e di Firenze non hanno avuto la stessa fermezza e hanno ripreso gli interrogatori ricorrendo alla tortura. A Venezia l’Inquisizione è nelle mani del doge. I templari sono lasciati tranquilli e possono rimanere nella loro casa.

A. Demurger, I templari. Un ordine cavalleresco cristiano nel medioevo, Garzanti 2006, p. 463