COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 13

Cool as the other side of the pillow. Che bello. È un’espressione che non conoscevo, e mi piace tantissimo. Mette insieme un modo d’essere che mi è lontano mille miglia (non so cosa caspita significhi, davvero, essere cool, ma sono sicuro che non mi riguarda) con un’immagine che invece mi riporta con la memoria a un’epoca in cui manco sapevo che esistesse l’aria condizionata, e la val padana offriva estati sudate e appiccicaticce anche senza bolle africane, e comunque ero in vacanza, e il giorno dopo non c’era scuola, e andavo a dormire tardi, e nel letto mi giravo e rigiravo per il caldo, e mi stupivo del come fosse possibile che il semplice voltare il cuscino dall’altra parte portasse con sé quel dono di frescura, breve ma sufficiente a farmi prendere sonno, e mentre giravo gallone mi chiedevo come fosse possibile che l’altro lato del cuscino fosse sempre un po’ più fresco del zzzzzzzz……

biscotti del Lagaccio, per fare colazione, sono un grosso non so, non so.

A paragone della riforma Moratti e del lavoro di Bertagna & co., l’elaborazione delle Indicazioni per il Curricolo da parte di Ceruti e tutto il pensiero di Morin mi paiono parecchio banali, di una banalità filosofica ancor prima che pedagogica. Metto le mani avanti: è la mia prima reazione, a caldo. Ma è fortissima l’impressione di un voler correre dietro alle mode globaliste dell’epoca (2006-07) e ad un certo volemosebbenismo piuttosto diffuso nella ex sinistra Dc e nella Margherita del ministro Fioroni, ma anche a tutta l’area dell’Ulivo e alla sinistra bertinottiana che poi finirà in Sel.
Trovo debolissima l’insistenza di Morin sulla “frammentazione del sapere” come male per eccellenza (e in particolare, come ti puoi sbagliare, il male starebbe nell’iperspecializzazione del sapere scientifico), e trovo a dir poco semplicistica la proposta, come rimedio, di ricostruire una visione globale della conoscenza che in fondo sarebbe un semplice rimettere insieme i cocci del sapere che s’è rotto, in un’operazione che, nel mentre che opera di Attak, evidenzia e lascia sussistere la separazione avvenuta – proprio come sul vaso rappezzato si vedono benissimo le crepe e le sbavature di colla – , e allora perché ostinarsi a biasimarla? Il giochino della cultura è da mo che s’è rotto, caro Morin, fattene una ragione. Indaghiamo semmai sulle ragioni e su quel che ne è venuto fuori, ma indietro non si torna, mai.
In sovrappiù, non sapevo che l’espressione Nuovo Umanesimo fosse appunto del Morin. Tendevo ad attribuirla a Fissore, unico vero maître à penser di questi nostri tempi bui.

Mentre i nostri musei vengono affidati a mani straniere, il padovano Piero Benvenuti viene eletto segretario dell’IAU, l’Unione Astronomica Internazionale, l’organizzazione che, come dice il Corrierone nostro, dà i nomi alle stelle. Ma – e questo l’ho imparato oggi – dice Benvenuti che non ci sono più stelle da nominare. Che al massimo ci sono gli asteroidi e, come ovvio, i pianeti extrasolari, qualche satellite non ancora avvistato e certo la miriade di oggetti ghiacciati delle varie fasce e nubi che si estendono al di là di Plutone, lo sterminato Molise del sistema solare. Ma stelle no, le abbiamo nominate tutte.
Ecco, questa è una cosa che mi lascia senza parole. Nominare le stelle era attributo divino: Prova a contare le stelle del cielo, Abramo, e tale sarà la tua discendenza. E quando Giobbe prova ad alzare la cresta, il Signore lo mette a posto dicendogli: Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione? Insomma, intorno al nominare le stelle ruota l’immenso Stacce! dell’Onnipotente rivolto alla sicumera dell’ambizione umana alla conoscenza.
E invece, abbiamo davvero nominato le stelle. E quindi?
Leopardi se lo chiede, se per caso il nominar le stelle, indice di potenza umana sovrumana, potrebbe significare di per sé essere più felici:

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.

Oggi, noi che abbiamo noverato le stelle e che le abbiamo battezzate tutte, possiamo rispondere  tranquillamente al dubbio del pastore errante.
… pastore, magna pure tranquillo.

DA UN FRAMMENTO DI DIALOGO SOCRATICO DI AUTORE SCONOSCIUTO

– Ora, caro Glaucone, devi sapere che gli uomini si dividono, per così dire, in quattro fratrìe.
– Vediamole, o Leonzio.
– Appartengono innanzitutto alla prima fratrìa quelli bravi, ma bravi davvero, beati loro, quelli che fanno quel che devono fare, e lo fanno bene, e lo sanno.
– Per Ercole, Leonzio, invidiabile sorte è la loro!
– Invidiabile invero, e quasi divina. Opposta alla loro è invece la seconda fratrìa, della quale fa parte l’innumerabile genìa degli stronzi. Essi sono coloro che non fanno, o se fanno fanno male. E lo sanno, oh se lo sanno, perché è proprio quello che vogliono.
– Come!, vogliono il male?! Ma maestro Socrate dice che…
– Stacce, o Glaucone, vogliono il male. Con buona pace di maestro Socrate.
– Ma allora, o Leonzio, che il Tartaro li inghiotta!
– Anch’io me l’auguro, ma non ci spero. Tuttavia, gli uomini degni di appartenere a queste due prime fratrìe sono rari, e simili a semidei si aggirano tra i mortali. Più facile è incontrare esemplari delle due altre fratrìe, che chiameremo miste. Vuoi tu vederle, o Glaucone?
– Io sì.
– Orbene, alla terza fratrìa appartengono quelli che senza logos fanno cazzate sesquipedali, convinti in piena coscienza di fare bene.
– Per Zeus, Leonzio, ben strana gente è codesta!
– Sicuro, ma molto più numerosa di quanto tu non t’aspetteresti. E infine, o Glaucone, la quarta e ultima fratrìa comprende coloro che fanno bene ma non se ne accorgono, e così trascorrono la loro vita beneficando ma temendo in piena coscienza di fare cazzate.
– Oh, per Zeus, quale infelice condizione!
– Tu dici, o Glaucone? Eppure non passa giorno che non ringrazi il Cielo, or che Lachesi va a deporre il fuso e Atropo s’accosta, perché il fato e la benevolenza degli dei mi danno vieppiù motivo di pensare di far parte di quest’ultimo novero. E altro e di più non potrei desiderare.

CITAZIONI PER UN ANNO

(Pensieri sparsi, ritagli di kindle, rimasugli di quel che s’è letto quest’anno. Non il meglio di, ma qualcosa che è rimasto. Un sorriso, una cazzata. Un avanzo di Natale. Un pegno di futuro, chissà)

 

 

Rutja si ricordò che un giorno Ägräs aveva affermato che i cristiani consideravano peccato tutto ciò che era piacevole. Evidentemente doveva essere peccato andare al gabinetto, visto il sollievo che se ne traeva. Strano che non se ne parlasse di più nella dottrina cristiana. Forse il peccato veniva nascosto, come si poteva arguire dal fatto che si facessero i propri bisogni da soli. Doppia morale, constatò Rutja.
(A. Paasilinna – Il figlio del dio del tuono)

Mi sovvenne un vetusto paradosso da viaggio nel tempo, e lo tirai fuori: “Sì, ma se uno tornasse indietro e uccidesse suo nonno?” Al mi diede un’occhiata perplessa: “Perché cazzo uno dovrebbe fare una cosa del genere?”
(S. King – 22/11/63)

Enrico Fermi, il fisico italiano che vinse il premio Nobel per la fisica nel 1938, pare abbia detto: “Se riuscissi a ricordare il nome di ogni particella subatomica, sarei un botanico.”
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

Royal Society for the Prevention of Accidents (RoSPA)
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

Il filosofo francese Cartesio credeva che ogni essere umano avrebbe potuto vivere quanto i patriarchi biblici – circa mille anni – ed era convinto di essere sul punto di svelare il segreto quando morì nel 1650, a cinquantaquattro anni.
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

“Non ho paura di morire, – pensò con convinzione. – Quello che mi fa paura è di essere ingannata dalla realtà. Di essere abbandonata dalla realtà”.
(H. Murakami – 1Q84)

Non c’è posto al mondo in cui ci siano più stupide al metro quadro di un’università californiana.
(R. Bolaño – 2666)

Le parve vecchia nel senso comune che le persone danno alla parola, vicina al suo termine come le promesse mantenute.
(M. Murgia – Accabadora)

Si invecchia quasi prima di maturare.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

Chi si ama di più lo si offende più di ogni altro.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

L’uomo non può neppure esistere senza inchinarsi; un simile uomo non sopporterebbe se stesso, né nessun altro uomo ci riuscirebbe. E se rinnegherà Dio, si inchinerà a un idolo, di legno o d’oro, o del pensiero.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

Non c’è niente di peggio che continuare a vivere accanto a un eroe dopo che questi ha già speso il suo eroismo.
(A. Gimenez-Bartlett – Riti di morte)

Mentre ero assorta in quei tristi pensieri, la sigaretta senza filtro che stavo fumando mi si disfece un poco fra le labbra. Una scusa perfetta per sputare.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Se devo dimenticati mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Ci misero un po’ a ricordarsi che, quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui – altro non c’è, di adatto.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Forse al vecchietto vennero delle specie di lacrime agli occhi, ma era impossibile dirlo, perché gli occhi dei vecchi piangono sempre un po’.
(J. Steinbeck – Al Dio sconosciuto)

“Tutti furono felici quando venne la pioggia. Non poterono sopportare quella gioia e fecero il male. La gente fa sempre il male quando è troppo felice.”
(J. Steinbeck – Al Dio sconosciuto)

“È amaro esser bambini”, pensò. “Ci sono tante superfici nuove e pulite da graffiare.”
(A. Baricco – City)

STREAM OF CONSCIOUSNESS

Non si sa che cosa voglia fare, il cielo. Le nuvole sono grigie d’un grigio pesante, e dagli squarci azzurri il sole di tanto in tanto mi ferisce gli occhi.
Tiro giù l’aletta parasole e spengo l’autoradio.
Peccato, penso, proprio su The Lamia. A lui The Lamb Lies Down On Broadway non dice nulla. Sta silenzioso e teso, gli occhi fissi sui fogli di una presentazione in PowerPoint, del tutto noncurante della strada, delle altre auto e delle traversie di Rael.
Resta il motore a farmi compagnia, e il flusso di coscienza.

Tutto al contrario, ho fatto. Tutto al contrario.
Prima, il figlio.
Poi, il lavoro.
Poi, il matrimonio.
Poi, mi son laureato.
Tutto al contrario.
Eppure, quanta  soddisfazione in questo aver fatto tutto al contrario. Quanta sorpresa, e quanta novità. È un  po’ come i pittori che per vedere i rapporti tra le forme – dicono – osservano i paesaggi a testa in giù. Come se l’upside-down ti consentisse di uscire dalla routine e dal dar per scontato, ti costringesse ad avvertire peso e consistenza delle esperienze che credi a torto solite e banali.
Che c’è di più banale del laurearsi, del lavorare, dello sposarsi e del far figli? Eppure, prova a farlo al contrario.
Un bar tra piazza Fontana e via Larga. Mio padre, mia madre e mia moglie. Un caffè seduti a un tavolino. Poche parole, sorrisi quasi commossi e un’enorme soddisfazione. Quattro persone, quattro caffè. La mia festa di laurea. Poi via, a prendere le macchine, subito a casa, in tempo per l’uscita dall’asilo.

Il cielo si è chiuso. Piove. Il tergicristallo si muove a ritmi alterni. Rimetto a posto l’aletta parasole. Lui sfoglia e tace, si sistema gli occhiali e tace. In lontananza l’A1 si perde nel pulviscolo d’acqua, diventa un susseguirsi di lampi rossi di stop e frecce gialle.

Che poi il tempo passa e tutto cambia.
Che è un modo un po’ banale per dire che s’invecchia.
Che è un modo ancor più banale per dire che alla fin fine si è fatto qualche passo in più verso la morte.
Per cui è molto meglio dire che il tempo passa e tutto cambia.
Perfino i parcheggi. Per dire, via Kennedy è tutto un divieto di sosta. Ci parcheggiavo cinque giorni su sei e ora niente, vietato.
Son passati otto anni. Cambiano le persone, figurarsi i parcheggi.
Qualcosa però non cambia, per fortuna. Due anni di SSIS ti permettono di rintracciare a colpo sicuro (e velocemente) i cessi di Lettere. Ma anche il migliore bar pasticceria di via D’Azeglio.

Il tempo passa e tutto cambia. Ripercorro l’A1 in senso inverso. C’è sole e calore, adesso, colore e musica.
In sottofondo Grant Lee Buffalo canta Rock Of Ages.

Sorpasso, parlo, ascolto. Rido, sorrido, ridiamo e sorridiamo, rilassati.
Passato, presente, futuro, cosa importa.
Salto l’uscita, e neanche me ne accorgo. Ma sì, Piacenza Sud, Piacenza Nord, chissenefrega, andiamo avanti ancora un po’, ché quando ci ricapita?

PUNTA IL CIELO

Accucciata sul balcone guardavo il fumo della sigaretta svanire.
Nel seguirne la danza ho alzato lo sguardo seguendo il profilo della ringhiera sino al vaso e oltre il suo bordo.
E c’era una cosa che prima non c’era, una cosa che non c’è stata mai.
Una punta verde che arrogante spuntava dalla terra bagnata da mille giorni di pioggia e di gelo.
E accanto a lei altre, più piccole, ancora in parte nascoste.
Ho alzato la testa e c’era questo azzurro pulito nel cielo e la luce forte.
Ho controllato i vasi: non hanno seguito i miei disegni, non sono nell’ordine in cui li avevo messi a novembre. Han fatto di testa loro, seguendo percorsi che non erano miei.
E sono spuntati di nascosto, mentre fuori pioveva, quando nessuno li poteva vedere.
Ora non faccio che vederla, quella punta di tulipano.
Mi giro e quel dito verde smeraldo che punta il sole occupa tutto il mio sguardo.
E ogni volta sono un pochino più felice.

QUEL CHE RESTA

Sto leggendo l’Antologia di Spoon River. Piano, a piccole dosi.
E mi rimane appiccicata addosso la dolorosa sensazione che quando non ci sarò più di me resteranno solo il rancore, i rimpianti, l’invidia e il vuoto di tutte le mancanze di una vita.
Che ci son cose che già adesso non han rimedio.
Mentre io non desidero altro che pace.
O forse è solo sbagliato l’approccio.

QUER PASTICCIACCIO BELLO

Perché se vi hanno detto che Roma è solo il Colosseo e i sampietrini, beh, vi hanno mentito.

Non so perché alla sora Frattaglia sia venuto in mente di coinvolgermi in questa bella follia, giuro. Sono ancora qua che me lo chiedo. Ma posso solo ringraziarla di averlo fatto,
Dieci foto della periferia romana, scattate da chi a Roma ci è nato e ci vive.
Dieci post che dalle foto prendono spunto, scritti da chi a Roma ci va spesso, ci va poco, c’è stato due o tre volte, non c’è stato mai.
Il risultato è Quer Pasticciaccio Bello.
Bello perché è bella l’idea di partenza, perché ci siamo divertiti a parlarne e a scrivere fuffa nelle stanzette di FriendFeed, perché gente che in alcuni casi non si è mai (ancora!) vista in faccia ha lavorato insieme con entusiasmo per creare qualcosa di gratuito, perché Nemo ha avuto genio e un bel po’ di pazienza per preparare questa confezione.
Insomma, un sacco bello.
Guardate e leggete, ne vale la pena.

TACCO 10

Non sento freddo questa sera.
Non c’è l’aria che taglia la faccia, non c’è nebbia.
Solo l’odore della polvere da sparo che non si disperde e il silenzio.
Anche stanotte questa città tace.
Si festeggia in fretta, quel tanto che basta. E poi si tace.
Sono le due di notte e camminiamo al centro di una strada deserta.
Tu con le mani ficcate in tasca, io che mi guardo i piedi.
Si sentono solo i miei passi, il rumore dei tacchi sul selciato.
E non c’è neanche un po’ di ritmo nel battere pesante del mio andare.
Mi affretto e poi rallento, rompo continuamente il tempo.
Cerco un incedere regolare tra cacche di cani e sanpietrini.
Intanto ascolto e se ascolto solo sono sola.
In questa via stretta del centro c’è solo il mio rumore.
Ti guardo. Le mani in tasca, il passo leggero.
Mi affretto. Rallenti.
Scegliamo una frequenza e continuiamo a camminare.