L’AMICA DI TUTTA UNA VITA

Questa notte ho perso un’amica.
Prima di essere mia amica era amica di mio padre e di mia madre.
Era amica dei miei nonni.
Poi è stata amica di mio marito e dei miei figli.
E’ stata l’amica di una vita.
Era una donna asciutta.
Non ti diceva che eri bella o che eri stata brava. Ti stringeva forte la mano e c’era dentro tutto.
Era una donna grande, con il grembiule stretto in vita.
Una che sapeva voler bene anche ai tuoi sbagli, senza negarli mai.
Ti guardava e sapevi sempre cosa pensava.
Quando in questi anni mi parlava di mio padre, delle cose che non sapevo di lui, di cose che lui a noi non aveva detto ma che a lei aveva confidato,  me lo vedevo davanti, così com’era.
Perché lei conosceva davvero le persone e ne tratteneva l’essenza.
E di lei era l’essenza che colpiva. Quel suo stare nel mondo senza fronzoli, senza maschere.
Quella forza che mai l’ha abbandonata in una vita che non è stata facile.
E nonostante tutto quando rideva lo faceva con gusto.
Ero seduta al tavolo della sua cucina dopo l’intervento che ha segnato l‘inizio della fine del mio papà.
Correvo lì nei mesi in cui avevo smesso di parlare con mia madre.
L’ho costretta ad ascoltare i miei rancori, le mie delusioni, le paure.
In quella stanza ho trovato tante volte rifugio.
Nella sua casa. Quella che lei aveva visto costruire e di cui conservava in testa lo schema degli impianti e la scadenza delle manutenzioni. Una donna pratica.
Per lei neanche morire è stato facile.
Sempre presente. La mente vigile in un corpo stanco che ha combattuto per 96 anni.
Ora riposa. E fuori c’è il sole.
Un’amica da sempre.
Non si perde un’amica così.

STORIE DI PROVINCIA

L’amministrazione assegna alla parrocchia 4 mila metri quadrati di verde in comodato d’uso gratuito fino al 2025; è prevista la realizzazione di un campetto polivalente e di una struttura idonea per feste parrocchiali. I residenti della zona avviano una raccolta firme reclamando l’utilizzo pubblico dell’area e si organizzano in un Comitato “In difesa del verde pubblico”. L’amministrazione sospende la pratica.
I residenti appendono striscioni ai balconi e nell’area verde contesa; i vigili li fanno togliere. Organizzano proteste di fronte alla chiesa in coincidenza con gli orari delle messe; il parroco fa suonare le campane per coprire gli slogan dei manifestanti. Intanto la Circoscrizione si schiera col parroco, il Vescovo e il Sindaco si incontrano per trovare una soluzione pacifica, la popolazione si divide tra quelli che, secondo qualcuno, devono far cagare il cane e altri che “siamo tornati al medioevo”.
La parrocchia rinuncia “pro bono pacis” ma gli animi restano caldi e si annuncia la nascita di un contro-Comitato in difesa del progetto.
Questi i fatti. Per ora.
Guareschi ci avrebbe scritto un bellissimo racconto.

il Piacenza; Piacenza24 e articoli correlati

VENERDI’ 4 MARZO 2011

Caro diario,

oggi mi son svegliata tardi. Così sono dovuta uscire di corsa e non ho fatto in tempo.
Ho infilato tutto in una busta e l’ho buttata nella borsa.
Ci ho pensato per tutto il tragitto tra casa e ufficio, mentre ascoltavo il bip della timbratrice e il dindon dell’ascensore ai vari piani.
Poi sono entrata nella stanza, ho appeso la giacca e sono uscita portando la borsa con me.
Ho scelto il bagno degli uomini, che lì c’è una luce migliore, e ho chiuso a chiave la porta.
Ho appoggiato tutto  in ordine sul lavandino ascoltando il via vai dei colleghi nel corridoio.
Ho iniziato piano ignorando l’urgenza che sentivo dentro, quella che ti prende quando stai facendo una cosa che forse non dovresti fare.
Intanto tornava il ricordo di quella volta che ho aiutato un’amica a rollare una canna nei bagni della scuola; avevo 16 anni e mi sentivo un’idiota incastrata in quel cesso minuscolo con in mano stagnola e accendino.
Il brivido era lo stesso, la paura di sentir bussare alla porta, la strizza di essere beccate. Ugualmente idiota.
Ci ho messo il tempo che ci voleva, la giusta cura, e dopo aver passato il gloss sulle labbra ho riposto ogni cosa.
E ho sorriso allo specchio. Io. Alla mia età.
E sorridevo ancora in corridoio, dando il buongiorno ai colleghi.
Dando il buongiorno all’adolescente idiota che rimane viva dentro di me.
La prossima volta devo ricordarmi di portare la piastra per i capelli.

CONTESTAZIONI E CONTESTI

Quando faccio i corsi parto da lontano.
Mi piace dare un senso alle cose, collocarle in un contesto.
Così comincio con l’articolo 1, quello della Costituzione.
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Che se dicevano L’Italia è una Repubblica democratica aveva comunque il suo valore, invece han detto che è fondata sul lavoro.
E all’articolo 4 ti dicono che  La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto e che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Io lo so che all’articolo 4 ci sono un sacco di commenti e me li aspetto.
Facciamo un po’ di retorica e andiamo avanti.
Articolo 32 La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e qui ci sta tutta la storia del peso sociale degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.
E finisco con l’articolo 41. Esatto. Quell’articolo lì, quello che han sentito al telegiornale, quello di cui si parla qualche volta sui giornali.
L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
E lì si capisce che la libertà ha dei limiti.
E no. Non è quello che avete letto sui giornali.
Per la prima volta questa sera uno di loro mi ha fermato lì, tra l’articolo 41 e il 2087 del Codice Civile (1942).
“Sì però questa roba è ora di cambiarla”.

PUNTA IL CIELO

Accucciata sul balcone guardavo il fumo della sigaretta svanire.
Nel seguirne la danza ho alzato lo sguardo seguendo il profilo della ringhiera sino al vaso e oltre il suo bordo.
E c’era una cosa che prima non c’era, una cosa che non c’è stata mai.
Una punta verde che arrogante spuntava dalla terra bagnata da mille giorni di pioggia e di gelo.
E accanto a lei altre, più piccole, ancora in parte nascoste.
Ho alzato la testa e c’era questo azzurro pulito nel cielo e la luce forte.
Ho controllato i vasi: non hanno seguito i miei disegni, non sono nell’ordine in cui li avevo messi a novembre. Han fatto di testa loro, seguendo percorsi che non erano miei.
E sono spuntati di nascosto, mentre fuori pioveva, quando nessuno li poteva vedere.
Ora non faccio che vederla, quella punta di tulipano.
Mi giro e quel dito verde smeraldo che punta il sole occupa tutto il mio sguardo.
E ogni volta sono un pochino più felice.

QUEL CHE RESTA

Sto leggendo l’Antologia di Spoon River. Piano, a piccole dosi.
E mi rimane appiccicata addosso la dolorosa sensazione che quando non ci sarò più di me resteranno solo il rancore, i rimpianti, l’invidia e il vuoto di tutte le mancanze di una vita.
Che ci son cose che già adesso non han rimedio.
Mentre io non desidero altro che pace.
O forse è solo sbagliato l’approccio.

ERMETICA MENTE

Io lo so che tanto non si capisce, ma voglio scriverlo lo stesso.
Le cose brutte che dite di me.
Ecco. Quelle cose che raccontate tra di voi, quelle che poi quando arrivo state in silenzio.
Quelle cose lì non mi riguardano.
Sono commenti relativi all’idea che voi avete di me. Non sono me.
E quindi non mi riguardano.
E’ solo che a volte avverto l’urgenza di aver attorno gente che ama un po’ di più quello che veramente sono.
Gente che sa andare oltre i modi e coglie i significati.
Gente che sospende il giudizio e ascolta.
Allora quando succede, quando capita l’occasione di poter stare con gente così, sono contenta.
Ma proprio tanto.
Sinceramente.

SICK BUILDING SINDROME

Il termine “sindrome dell’edificio malato” (Sick Building Sindrome, SBS) descrive una serie di sintomi riportati dagli occupanti di un edificio associati alla permanenza nell’edificio stesso, presentando questo condizioni di cattiva qualità dell’aria indoor tali da poterlo definire “malato”. Si manifesta con sintomi aspecifici ma ripetitivi e non correlati ad un determinato agente, quali: irritazione degli occhi, delle vie aeree e della cute, tosse, senso di costrizione toracica, sensazioni olfattive sgradevoli, nausea, torpore, sonnolenza, cefalea, astenia. I malesseri, avvertibili solo ed esclusivamente durante la permanenza all’interno dell’edificio, possono essere associati a determinate stanze o settori, oppure generalizzati all’intera costruzione. I sintomi si manifestano in una elevata percentuale di soggetti che lavorano in ufficio (in genere superiore al 20%), scompaiono o si attenuano dopo l’uscita e non sono accompagnati da reperti obiettivi rilevanti. Proprio l’assenza di reperti obiettivi focalizza il problema sulla adeguatezza della qualità dell’aria, intesa come soddisfacimento delle proprie aspettative e raggiungimento di uno stato di benessere. Infatti è difficile poter affermare che vi sia una vera e propria “malattia” causata dalla permanenza in edifici malati, mentre è certo che si può avvertire malessere e senso di irritazione.
(Sindromi correlate all’inquinamento indoor)

Il mio ufficio è malato.

NON APRIRE QUELL’ARMADIO

Un armadio non è un ripostiglio.
Non funziona nello stesso modo.
Sistemare l’armadio è un orrendo viaggio a ritroso nel tempo.
Sei costretta a fare i conti con te stessa, decidere se continuare a mentire o essere sincera e dirti la verità.
Vuotare l’armadio è come una seduta di psicoanalisi, una passeggiata nell’inconscio.
Perché l’armadio ti mette davanti a tutto ciò che in te è irrazionale.
Non si spiegano in altro modo i capi di vestiario che ancora conservi, che non sai come son finiti lì dentro e che mai e poi mai in uno stato di lucidità avresti comprato.
Non si spiega perché metà dei vestiti che hai sono di due taglie in meno rispetto a quella che porti.
Non si spiegano le decine di gonne, che tu la gonna non la metti mai, e neanche il numero sconsiderato di giacche.
Insomma, apri l’armadio e scopri che non sai chi sei e, in verità, neanche chi eri.
Allora ti siedi sul letto e provi a parlarti, cerchi di ragionare.
Che senso ha che tieni ancora quel vestito taglia 38 che tanto lo sai che non ci rientrerai mai.
Perché stai riordinando otto tubini neri di varie lunghezze e pensi davvero di rimetterli dentro?
Provane almeno uno. Lo vedi? Guardati.
E quella camicia lì? Non l’hai messa mai negli ultimi cinque anni, c’è bisogno di dire altro?
Mi alzo. Sono stanca di ascoltarmi. Io lo so. So tutto.
Aspetta che chiudo.