DA UN FRAMMENTO DI DIALOGO SOCRATICO DI AUTORE SCONOSCIUTO

– Ora, caro Glaucone, devi sapere che gli uomini si dividono, per così dire, in quattro fratrìe.
– Vediamole, o Leonzio.
– Appartengono innanzitutto alla prima fratrìa quelli bravi, ma bravi davvero, beati loro, quelli che fanno quel che devono fare, e lo fanno bene, e lo sanno.
– Per Ercole, Leonzio, invidiabile sorte è la loro!
– Invidiabile invero, e quasi divina. Opposta alla loro è invece la seconda fratrìa, della quale fa parte l’innumerabile genìa degli stronzi. Essi sono coloro che non fanno, o se fanno fanno male. E lo sanno, oh se lo sanno, perché è proprio quello che vogliono.
– Come!, vogliono il male?! Ma maestro Socrate dice che…
– Stacce, o Glaucone, vogliono il male. Con buona pace di maestro Socrate.
– Ma allora, o Leonzio, che il Tartaro li inghiotta!
– Anch’io me l’auguro, ma non ci spero. Tuttavia, gli uomini degni di appartenere a queste due prime fratrìe sono rari, e simili a semidei si aggirano tra i mortali. Più facile è incontrare esemplari delle due altre fratrìe, che chiameremo miste. Vuoi tu vederle, o Glaucone?
– Io sì.
– Orbene, alla terza fratrìa appartengono quelli che senza logos fanno cazzate sesquipedali, convinti in piena coscienza di fare bene.
– Per Zeus, Leonzio, ben strana gente è codesta!
– Sicuro, ma molto più numerosa di quanto tu non t’aspetteresti. E infine, o Glaucone, la quarta e ultima fratrìa comprende coloro che fanno bene ma non se ne accorgono, e così trascorrono la loro vita beneficando ma temendo in piena coscienza di fare cazzate.
– Oh, per Zeus, quale infelice condizione!
– Tu dici, o Glaucone? Eppure non passa giorno che non ringrazi il Cielo, or che Lachesi va a deporre il fuso e Atropo s’accosta, perché il fato e la benevolenza degli dei mi danno vieppiù motivo di pensare di far parte di quest’ultimo novero. E altro e di più non potrei desiderare.

CITAZIONI PER UN ANNO

(Pensieri sparsi, ritagli di kindle, rimasugli di quel che s’è letto quest’anno. Non il meglio di, ma qualcosa che è rimasto. Un sorriso, una cazzata. Un avanzo di Natale. Un pegno di futuro, chissà)

 

 

Rutja si ricordò che un giorno Ägräs aveva affermato che i cristiani consideravano peccato tutto ciò che era piacevole. Evidentemente doveva essere peccato andare al gabinetto, visto il sollievo che se ne traeva. Strano che non se ne parlasse di più nella dottrina cristiana. Forse il peccato veniva nascosto, come si poteva arguire dal fatto che si facessero i propri bisogni da soli. Doppia morale, constatò Rutja.
(A. Paasilinna – Il figlio del dio del tuono)

Mi sovvenne un vetusto paradosso da viaggio nel tempo, e lo tirai fuori: “Sì, ma se uno tornasse indietro e uccidesse suo nonno?” Al mi diede un’occhiata perplessa: “Perché cazzo uno dovrebbe fare una cosa del genere?”
(S. King – 22/11/63)

Enrico Fermi, il fisico italiano che vinse il premio Nobel per la fisica nel 1938, pare abbia detto: “Se riuscissi a ricordare il nome di ogni particella subatomica, sarei un botanico.”
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

Royal Society for the Prevention of Accidents (RoSPA)
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

Il filosofo francese Cartesio credeva che ogni essere umano avrebbe potuto vivere quanto i patriarchi biblici – circa mille anni – ed era convinto di essere sul punto di svelare il segreto quando morì nel 1650, a cinquantaquattro anni.
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

“Non ho paura di morire, – pensò con convinzione. – Quello che mi fa paura è di essere ingannata dalla realtà. Di essere abbandonata dalla realtà”.
(H. Murakami – 1Q84)

Non c’è posto al mondo in cui ci siano più stupide al metro quadro di un’università californiana.
(R. Bolaño – 2666)

Le parve vecchia nel senso comune che le persone danno alla parola, vicina al suo termine come le promesse mantenute.
(M. Murgia – Accabadora)

Si invecchia quasi prima di maturare.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

Chi si ama di più lo si offende più di ogni altro.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

L’uomo non può neppure esistere senza inchinarsi; un simile uomo non sopporterebbe se stesso, né nessun altro uomo ci riuscirebbe. E se rinnegherà Dio, si inchinerà a un idolo, di legno o d’oro, o del pensiero.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

Non c’è niente di peggio che continuare a vivere accanto a un eroe dopo che questi ha già speso il suo eroismo.
(A. Gimenez-Bartlett – Riti di morte)

Mentre ero assorta in quei tristi pensieri, la sigaretta senza filtro che stavo fumando mi si disfece un poco fra le labbra. Una scusa perfetta per sputare.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Se devo dimenticati mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Ci misero un po’ a ricordarsi che, quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui – altro non c’è, di adatto.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Forse al vecchietto vennero delle specie di lacrime agli occhi, ma era impossibile dirlo, perché gli occhi dei vecchi piangono sempre un po’.
(J. Steinbeck – Al Dio sconosciuto)

“Tutti furono felici quando venne la pioggia. Non poterono sopportare quella gioia e fecero il male. La gente fa sempre il male quando è troppo felice.”
(J. Steinbeck – Al Dio sconosciuto)

“È amaro esser bambini”, pensò. “Ci sono tante superfici nuove e pulite da graffiare.”
(A. Baricco – City)

STREAM OF CONSCIOUSNESS

Non si sa che cosa voglia fare, il cielo. Le nuvole sono grigie d’un grigio pesante, e dagli squarci azzurri il sole di tanto in tanto mi ferisce gli occhi.
Tiro giù l’aletta parasole e spengo l’autoradio.
Peccato, penso, proprio su The Lamia. A lui The Lamb Lies Down On Broadway non dice nulla. Sta silenzioso e teso, gli occhi fissi sui fogli di una presentazione in PowerPoint, del tutto noncurante della strada, delle altre auto e delle traversie di Rael.
Resta il motore a farmi compagnia, e il flusso di coscienza.

Tutto al contrario, ho fatto. Tutto al contrario.
Prima, il figlio.
Poi, il lavoro.
Poi, il matrimonio.
Poi, mi son laureato.
Tutto al contrario.
Eppure, quanta  soddisfazione in questo aver fatto tutto al contrario. Quanta sorpresa, e quanta novità. È un  po’ come i pittori che per vedere i rapporti tra le forme – dicono – osservano i paesaggi a testa in giù. Come se l’upside-down ti consentisse di uscire dalla routine e dal dar per scontato, ti costringesse ad avvertire peso e consistenza delle esperienze che credi a torto solite e banali.
Che c’è di più banale del laurearsi, del lavorare, dello sposarsi e del far figli? Eppure, prova a farlo al contrario.
Un bar tra piazza Fontana e via Larga. Mio padre, mia madre e mia moglie. Un caffè seduti a un tavolino. Poche parole, sorrisi quasi commossi e un’enorme soddisfazione. Quattro persone, quattro caffè. La mia festa di laurea. Poi via, a prendere le macchine, subito a casa, in tempo per l’uscita dall’asilo.

Il cielo si è chiuso. Piove. Il tergicristallo si muove a ritmi alterni. Rimetto a posto l’aletta parasole. Lui sfoglia e tace, si sistema gli occhiali e tace. In lontananza l’A1 si perde nel pulviscolo d’acqua, diventa un susseguirsi di lampi rossi di stop e frecce gialle.

Che poi il tempo passa e tutto cambia.
Che è un modo un po’ banale per dire che s’invecchia.
Che è un modo ancor più banale per dire che alla fin fine si è fatto qualche passo in più verso la morte.
Per cui è molto meglio dire che il tempo passa e tutto cambia.
Perfino i parcheggi. Per dire, via Kennedy è tutto un divieto di sosta. Ci parcheggiavo cinque giorni su sei e ora niente, vietato.
Son passati otto anni. Cambiano le persone, figurarsi i parcheggi.
Qualcosa però non cambia, per fortuna. Due anni di SSIS ti permettono di rintracciare a colpo sicuro (e velocemente) i cessi di Lettere. Ma anche il migliore bar pasticceria di via D’Azeglio.

Il tempo passa e tutto cambia. Ripercorro l’A1 in senso inverso. C’è sole e calore, adesso, colore e musica.
In sottofondo Grant Lee Buffalo canta Rock Of Ages.

Sorpasso, parlo, ascolto. Rido, sorrido, ridiamo e sorridiamo, rilassati.
Passato, presente, futuro, cosa importa.
Salto l’uscita, e neanche me ne accorgo. Ma sì, Piacenza Sud, Piacenza Nord, chissenefrega, andiamo avanti ancora un po’, ché quando ci ricapita?

PEZZI/06 – TE LA SENTI?

Il giorno in cui decisi di laurearmi, me lo ricordo come fosse oggi.
I miei avevano un’azienda agricola nelle campagne ciociare, vicino a Frosinone. Due miei fratelli stanno ancora lì, hanno le vacche, fanno il formaggio.
Io invece, a diciott’anni, finito il liceo, dissi a mio padre, “A pa’, io voglio andare avanti a studiare, vado all’università.” E sono salito su a Piacenza, alla Cattolica, facoltà di agraria. Con la mia valigia me ne sono venuto e stavo al collegio sant’Isidoro.
Tempo due mesi e m’ero già rotto i coglioni. I corsi, lo studio, il collegio, il non trovarsi bene con i compagni, non so. Al momento di andare a casa per le vacanze di Natale ho svuotato il mio armadietto, ho rifatto la valigia, sono tornato giù e ho detto a mio padre, “A pa’, sono tornato, e non torno più su. Mi fermo qua e lavoro con te.” Lui mi ha guardato, ha fatto sì con la testa e mi ha detto “Bene, stai tranquillo, non ci pensare, qui il lavoro non manca.”
E così tornai a lavorare nelle stalle, a portare via il latte, a stare attento alla pulizia, a curare la distribuzione del foraggio. Lo facevo bene, e mi piaceva. Ero contento.
Andò avanti così una settimana, e passò il capodanno.
Due giorni dopo, era di sera, e mi ricordo che faceva un freddo cane. C’era un vento che tagliava la faccia e minacciava neve.
Mio padre mi chiamò da parte e mi disse “C’è un problema. Io e la mamma dobbiamo andare dallo zio Gino che nun sta bene, gliel’abbiamo promesso, ma vedi che c’è, è successo qualcosa, s’è rotta una cinghia, nun so, e nun funziona più il raschiatore. C’è da portare fuori tutto il liquame a mano, con pala e carriola. E allora ce devi penza’ tu. Te la senti?” E io, che dovevo di’? “Va bene papà, ci penso io.”
Me lo ricordo come fosse oggi. Una carriola di merda e di piscio dopo l’altra, che dovevo portare, guarda, come da qua a là in fondo, che quando uscivo dalla stalla il vento mi tagliava la faccia da un lato, e quando tornavo me la tagliava dall’altro. Il freddo, la puzza, la fatica e lo schifo. Tre ore c’ho messo, che quando è tornato mio padre “Bravo,” m’ha detto, “ora ci penso io, vatti a fare una doccia”, io sono andato e, tempo di finire, mio padre mi fa “Oh, era una stronzata, il nastro è a posto, ora funziona benissimo.
Il giorno dopo, a tavola, “Papà,” gli ho detto, “sai che c’è? Ci ho ripensato, torno a Piacenza e mi metto a studiare. Sul serio, mi laureo.”
Lui non ha detto niente, ha guardato di sguincio mia madre e ha abbozzato un mezzo sorriso. Poi mi ha versato da bere.
Che io non gliel’ho mai chiesto, e adesso è tardi, e lui è da mo che è morto, ma in testa mia sono sicuro che quel nastro trasportatore l’ha rotto lui.

TRACCE DI PIACENZA/15

(NdR: in quell’avvenimento epocale che fu la discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494, la tappa piacentina fu in qualche modo decisiva. Fu proprio durante il soggiorno piacentino, infatti, che il re dovette mutare le proprie intenzioni, e rinunciare così a percorrere la via Emilia fino in Romagna per puntare direttamente su Firenze. Con tutto il casino che ne derivò)

Partitosi il re da Pavia, giunse in Piacenza dove Ludovico avuto novelle che il Duca di Milano suo nipote si moriva, prese commiato per andarvi. Pregollo il Re che ritornasse tosto, e egli così gli promise.
Ma prima, che giungesse a Pavia, morì il Duca, e Ludovico volando andò a Milano. Io lo seppi per le lettere dell’Ambasciatore Veneziano, ch’era con esso lui, il quale lo scriveva alla sua Repubblica; avvisandola, che egli si voleva far Duca, cosa sommamente odiosa a quella Signoria, la quale mi dimandò se il Re prenderia la protezione del fanciullo e avvenga che, ciò fosse molto ragionevole, io il posi in dubbio, atteso il bisogno, che il Re aveva del Sig. Ludovico.
In breve, egli si fece ricevere per Signore: e questo fu il fine (come molti dicevano) per lo quale ci aveva fatti passar i monti, imputandolo della morte del nipote, i parenti, e amici del quale s’erano messi in arme, e venuti in Romagna, (come io dissi) per torr’il governo a Ludovico, e agevolmente saria loro succeduto, se il Re non fusse stato in Italia. Ma avendo eglino incontra il conte di Caiazzo con gli Italiani, e Monsignor d’Aubigni con ducento uomini d’arme Francesi, e un numero di Svizzeri, Don Ferdinando fu costretto a ritirarsi verso Forlì, di che n’era Signora una bastarda de gli Sforza di Milano, vedova del Conte Girolamo, che fu nipote di Papa Sisto IV. Dicevasi costei essere amica d’Aragonesi, ma avendone i nostri preso d’assalto una sua piccola terra, battuta solamente due giorni, essa Signora s’accostò volentieri a noi, mostrandoci grande inclinazione. Cominciarono allora i popoli d’Italia, desiderosi di novità, a prender animo, vedendo cosa non più veduta a lor tempi, e questo era il condurre, e maneggiare con tanta facilità grandissimo numero d’artiglieria, il cui esercito non era mai per l’adietro stato così ben inteso nella Francia, come allora. Ferdinando avvicinandosi al regno si ridusse a Cesena, buona città della Chiesa, nella marca d’Ancona; ma avendo questa sua ritirata più sembiante di fuga, che di altro, ciascuno dunque trovava in disparte i somieri, e le bagaglie, senza alcuno rispetto, le saccheggiavano. Ne v’ha dubbio che si sarebbono quasi tutti ribellati, se i nostri, lasciando le ruberie, e le violenze, si fussero partiti moderatamente, e con buon ordine, ma facevano tutto in contrario; di che io n’ebbi grandissimo dispiacere, per la gloria, e fama, che si poteva acquistare in quel viaggio la nazione Francese. Conciosia che dal principio i popoli ci riverivano al pari d’uomini Santi; dandosi a credere ch’in noi fusse ogni fede, e bontà; ma cotal opinione non durò lor gran fatto, si per nostra propria colpa, come anco perché i nemici pubblicavano in ogni contrada noi essere pessima generazione di gente, la quale da per tutto rubava le donne, i denari, e i beni altrui. E nel vero non ci poteva essere attribuita maggiore infamia, e dicevano in parte la verità.
Lasciai il re a Piacenza, dove egli fece fare solenni esequie al Duca di Milano suo cugino germano; e io mi credo che egli non avesse guari altro, che farsi, atteso che Ludovico novello Duca di Milano s’era partito da lui. M’hanno detto alcuni (che lo dovevano saper molto bene) che i nostri temendo, e non sapendo ben di che, furono presso a ritornarsi indietro, massimamente vedendosi sprovveduti da tutte le cose. Oltrache molti, che lodarono già quel viaggio, al presente lo biasimavano, come fece per sue lettere, il Signor d’Urfè gran Scudiero, il quale essendo restato in Genova ammalato, pose il Re in gran sospetto, di cosa, di che diceva essere stato avvertito, ma (come altrove ho detto) Iddio mostrava di essere, quello, che conduceva l’impresa. In quella alterazione di mente ebbe novella il Re, che il Duca di Milano ritornava in campo, e che le cose di Firenze erano in moto, per le inimicizie, e invidia, che Pietro de’ Medici s’aveva tirata addosso, vivendo non alla Cittadinesca, ma come se stato fusse prencipe assoluto di quella Città; onde molto onorevoli famiglie, Capponi, Soderini, Nerli, e altre assai, le quali non potevano tollerare tanto fasto, e ambizione, diedero occasione a Pietro di partirsi da Firenze. Andossene diritto ad alcune terre deboli dello Stato, per farle sue, e potervisi ridurre nella vernata, la quale già era incominciata. Alcune delle quali si dichiararono a suo favore (come anco fece Lucca, nemica del nome Fiorentino) le quali tutte diedero al Re ogni comodità, e servizio. Il Duca di Milano ebbe sempre, mira, e fine di due cose principali, che il Re non passasse più inanzi in quella stagione, e che a lui fussero date Pisa, (Città nobile e grande) Sarzana e Pietrasanta. Le due ultime furono dei Genovesi, poco tempo prima, acquistate in guerra da Fiorentini a tempo di Lorenzo de Medici.
Il re prese la strada per Pontremoli, terra del Ducato di Milano, e andò assediar Sarzana fortissimo castello, e uno de’ migliori, che s’avessero i Fiorentini, ma per le divisioni loro sprovveduto d’ogni cosa…

Philippe de Commynes, Delle Mémorie Di Filippo Di Comines, Cavaliero, & Signore d’Argentone, Intorno alle principali azioni di Lodovico Undicesimo, e di Carlo Ottavo suo figliolo, amendue Re di Francia, Venezia 1640, pp. 237 s.

 

PEZZI/05 – TU CHE DICI?

Ciao, ecco, giusto te. Ti volevo dire. Non riesco a mandare mio figlio in parrocchia.
Cioè, lui ha un suo gruppetto di amici, giù in paese, ma mi piacerebbe che allargasse un po’ il giro.
La scorsa estate è stato anche in vacanza con la parrocchia, gli è pure piaciuto, il parroco gli è simpatico, dice che è un bel tipo (cioè, mio figlio, dice che il parroco è un bel tipo), eppure niente, oh, non ci vuole andare, non mi riesce di mandarcelo. Neanche col ricatto!
Che c’ho provato a dirgli “Ma vai una sera all’incontro con gli altri ragazzi, lì in parrocchia, prova, vacci! Se ci vai, bon, se no la sera non ti faccio più uscire.”
E lui niente.
Dice: “I miei amici me li scelgo io.”
Tu che dici?

– Che c’ha ragione.

TRACCE DI PIACENZA/14

I negotiatores di Asti e di alcune città vicine  (Alba, Chieri, Cuneo, Torino, Vercelli, ecc.), i quali, – negli ultimi anni del secolo XI – stabilirono legami commerciali con la Francia, furono – intorno al 1200 – i principali intermediari fra Genova e i paesi del Nord, e – nel corso del secolo XIII – mantennero costanti rapporti d’affari con le fiere della Champagne e con altri centri del commercio transalpino. A partire dagli ultimi anni del secolo XII, essi furono seguiti al di là delle Alpi, in Francia, nelle Fiandre, nella Germania meridionale, in Inghilterra, da mercanti di Milano, Piacenza, Bologna e (in minor numero) di Lodi, Cremona, Parma e forse Bergamo e Monza.
Di tutti costoro (in mancanza di notizie più precise su Milano) i più influenti furono i mercatores piacentini, i quali per quasi due secoli (dal principio del secolo XII alla fine del XIII), giovandosi della posizione strategica di Piacenza a cavallo delle grandi vie di comunicazione continentali lungo il Po, attraverso i valichi alpini e al di là degli Appennini fino a Genova, costruirono una vasta rete di scambi internazionali con i paesi dell’Occidente e dell’Oriente, diventando una delle principali potenze commerciali d’Europa. In Occidente essi conquistarono una posizione dominante nel commercio per via di terra fra Genova (e Marsiglia) e la Champagne; stabilirono legami con la Francia, le Fiandre, l’Inghilterra e la Germania; assunsero in certi periodi, verso la fine del secolo XIII, un ruolo di guida nella comunità mercantile italiana alle fiere di Nîmes e della Champagne; in Oriente parteciparono alla prima Crociata, operarono in epoche diverse in Africa, Egitto, Siria, Palestina, Armenia (Laiazzo) e Persia (Tabriz); furono tra gli ultimi italiani ad abbandonare gli Stati crociati per stabilirsi a Cipro (soprattutto gli Scotti, il cui raggio d’azione, nel 1301, andava da Famagosta a Bruges).

Ph. Jones, La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. 4: Dalla caduta dell’Impero Romano al secolo XVIII. L’economia delle tre Italie, Einaudi – Il Sole 24 Ore, 2005, pp. 1719 s.

BRICOLEUR DELL’INTERCETTAZIONE

C’è maretta, in questa quarta. Storie di favoritismi, veri o presunti tali, e di leccaculismo reale o supposto hanno reso i rapporti piuttosto tesi.
A farne le spese, a torto o a ragione non so  – e non m’interessa gran che -, è soprattutto una ragazza, più ingenua o più fessa degli altri, che senza curarsi dell’indice di gradimento tende a coltivare il proprio orticello in modo senz’altro lecito ma piuttosto esclusivo, al prezzo di continui scazzi coi compagni.
E allora, all’ennesimo scazzo, il compagno più scafato e più tecnoevoluto sai che fa?
Col cellulare, durante un cambio d’ora registra alcune affermazioni della ragazza, piuttosto pepate e non proprio ortodosse, riguardo ad alcuni insegnanti. Dopodiché le fa riascoltare all’autrice e la minaccia di renderne edotti gli interessati.
Insomma, intercettazione fai-da-te e relativo ricatto in sedicesimo.
Son qui a fare un’ora di sostituzione e perciò chiedo conto del marasma in cui m’imbatto al mio ingresso nell’aula. Così la ragazza, a dir poco alterata, mi mette a conoscenza della situazione tra le risate e i salaci commenti dei compagni.
Non ho avuto una reazione molto equilibrata. Anzi, diciamo che mi sono incazzato di brutto.
I ragazzi sono tutti maggiorenni o al limite dei diciott’anni. E io mi chiedo (al di là della liceità “penale” di un comportamento del genere) quanto di questa bravata sia frutto di stronzaggine congenita e quanto invece sia figlio del recente, martellante riferimento mediatico alle intercettazioni, del quale questi ragazzi hanno colto – e mi ripetono – quel che ritengono essere il succo della questione (dalle intercettazioni si ricava LA VERITÀ!), senza capire un prospero di tutto il contesto di polemiche e argomenti contro o a favore delle intercettazioni.
Alcuni di loro – compreso il bricoleur dell’intercettazione – sono in qualche modo recidivi nell’arte del render pubblico quel che non lo è: già un paio di volte li ho avvertiti e ripresi io stesso, in relazione ad alcuni eleganti post scritti su Facebook in cui (riferendosi alla preside e ad un compagno di classe, entrambi citati con nome e cognome) si producevano in insulti sanguinosi e in prese in giro feroci, del tutto inconsapevoli delle possibili conseguenze. Che allora si palesarono in una denuncia della preside alla polizia postale.
Non so, ho sempre più l’impressione di essere circondato da un branco di minus habentes, ai quali sia stata messa in mano un’arma senza essersi assicurati della presenza del  buon senso necessario a discriminare il come e il quando usarla, e soprattutto il se.
Per quel che mi riguarda – dico loro -, da qui fino all’ultimo giorno della quinta in questa classe non tollererò che un cellulare venga tenuto in mano durante le mie ore, acceso o non acceso, smart o dummy che sia non m’interessa. Requisizione, consegna in presidenza, convocazione dei genitori e tutto l’ambaradan del caso, mica balle.
‘Nziamai che mi ritrovi sputtanato per una parola non appropriata, un epiteto poco ortodosso, un filmato in cui mi si veda con l’indice nel naso. Vai a contestualizzare, poi, a latte versato.
Deficienti.

TRACCE DI PIACENZA/13

Scontri violenti tra gli abitanti di Ravenna (…) si ripetevano ogni domenica. Scontri durissimi, quasi all’ultimo sangue: ci si fermava solo al momento di infliggere il colpo definitivo all’avversario: e anche così i morti non erano infrequenti.
Sorge allora subito spontanea la domanda sull’origine di questo uso. Prima di tutto va detto che durante il Medioevo “giochi” del tipo di quello ravennate erano usuali in quasi tutta l’Italia centrosettentrionale, sia nel periodo più antico sia durante l’età comunale (che anzi mostra un infittirsi delle testimonianze in questo senso per il netto aumento della quantità delle fonti disponibili). Le fonti provano la diffusa partecipazione della popolazione, senza distinzioni di strato sociale, a queste zuffe, che avevano nomi diversi, ma che in genere si chiamavano “battaglia” (pugna, battagliola, bellum) oppure “gioco” (ludus). Nel nome, poi, si faceva talvolta riferimento alle armi come elemento di specificazione (gioco o battaglia con i bastoni, le mazze, le clave, gli scudi e così via). Esse si svolgevano in luoghi aperti, ben individuati, spesso fuori delle mura, ai quali è rimasto il nome di “campo” o “prato di battaglia”.
Nel 1090 a Piacenza i combattimenti si svolgevano in un terreno vuoto, compreso fra una chiesa e una strada; altre prove toponomastiche simili vengono, per esempio, da Modena e da Perugia. In quest’ultimo caso il luogo dello scontro è perfettamente documentato (il ludus battaglie, il gioco della battaglia ben noto fin dal Duecento, continuò fino al Quattrocento inoltrato): si trovava sotto l’attuale piazza Matteotti ed era delimitato da un muro.

S. Gasparri, Giochi di guerra. Gli scontri cruenti tra fazioni cittadine, in Storia e Dossier 55, ottobre 1991, pp. 41 s.

 

LA CUFFIA

La collega lascia ogni giorno guanti, sciarpa e cuffia sui tavoli della sala insegnanti. I guanti poggiati sulla sciarpa, la cuffia poggiata sui guanti, in posizione rovesciata, con l’apertura rivolta verso l’alto. Non so perché, ma è un vezzo che a me piace, e voglio bene anche per questo alla mia collega. Amo l’atmosfera  quasi domestica che quei capi d’abbigliamento femminile e la loro apparenza studiatamente negletta donano a quell’ambiente di per sé freddo e poco familiare.
Ma forse ancor di più amo il collega che, tutti i giorni che il buon Dio manda in terra, quando la collega recupera il tutto al termine della mattinata, non manca mai di farle trovare due o tre centesimi nella cuffia, alla quale oggi aveva posto davanti anche il biglietto UN’OFFERTA PER I POVERI GRAZIE.