COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 18

Io tutto ‘sto problema nel costruire muri che ci dividono dagli immigrati mica lo vedo. A me sembra un’ottima idea.
Per esempio, prendi casa mia. Di là dal muro c’è la famiglia di Bogdan. Oggi ho imparato che si chiama Bogdan, appunto, e che è rumeno (– Ma come rumeno!, Bogdan non è un nome slavo?– Eh, sì, ma tanto quando lo dico non lo capisce nessuno). Il muro, dicevo. Metti che non ci sia il muro, io e Bogdan avremmo in comune la mia sala e il suo corridoio, e quel che è peggio è che avremmo in comune un gabinetto open space. Che non sarebbe un bel vedere, dai.
Ho imparato che si chiama Bogdan perché è rimasto senza luce. Era lì che stirava (la moglie stava dietro al bambino, un trottolino biondo che corre tutto il giorno) quando la luce, zac, è andata via. E allora ha suonato al vicino, cioè a me, per chiedermi se sapevo dov’era il contatore, come si fa tra vicini. E allora l’ho accompagnato giù in cantina, e in ascensore gli ho chiesto da dove veniva, e lui mi ha detto dalla Romania e si è presentato, Mi chiamo Bogdan, e io Piacere, Leo, e siamo andati giù e abbiamo tirato su il contatore.
E quindi tra me e Bogdan c’è un muro, e mi sembra normale. E anche giusto. E opportuno.
Anche perché la moglie è antipaticissima. O almeno così mi dice la mia signora, che a furia di incontrarla sul balcone a stendere, così, tutta bionda, giovane giovane magra magra coi pantaloncini corti, non l’ha presa in simpatia. E quindi meno male che c’è il muro, ‘nzia mai che incrociassi troppo spesso la scorbutica.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 17

Riguardo allo scandalone degli iscritti a Ashley Madison, l’articolo di Piacenza24 dà un’idea della dimensione local dello sputtanamento global, ed è piuttosto interessante.
Per dire, a Piacenza risultano 1692 iscritti. A Roma, per fare un confronto, sono 691. La tranquillità della provincia, dicheno.
(Che poi, a ben guardare, in realtà è Roma ad essere stranamente virtuosa, o meglio, a organizzare corna e cornetti ancora in modo analogico: una Milano ben più web-friendly di iscritti ne ha 35337)
Poi ci sono i particolari, dove, come si sa, ama annidarsi il diavolo.
Poche donne su Ashley Madison, si è scoperto. Ma a Rivergaro le donne iscritte erano ben il 30% del totale!
…un totale, per la verità di 25 iscritti, ma la percentuale cruda  fa nettamente più figo.
E poi l’abisso della perdizione: Nibbiano, che dei suoi duemila residenti, bambini e ultranovantenni compresi , ne vede iscritti al sito 145.

Nella foto, 145 fedifraghi. Praticamente, uno per casa

I Presidi dei Licei sono nominati dal Re.
(Legge Casati, Regio Decreto Legislativo n° 3725, 13 novembre 1859, articolo 230)

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 16

Mozart. Concerto n° 1 in Re maggiore, secondo movimento. Allegro Rondò.
Non l’avevo mai ascoltato, e così, per la rubrica Orizzonti classici del WTF e del Facepalm, non avevo avuto occasione di fare attenzione al testo che lo stesso Wolfango ha voluto accompagnasse questo pezzo (che rappresenta, mi dicono, una delle vette più alte per chiunque si diletti di suonicchiare il corno).

Buon ascolto.

Il titolo originale dell’opera, che poi Mozart decise di cambiare

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 14

Piacenza è dal 1995 la città italiana col maggior numero di testate studentesche. Dice l’articolo sul Corriere che ce ne sono 18 attive ininterrottamente da 30 anni.
Si potrà discutere sulla valenza educativa del giornalino d’istituto e sulla qualità delle singole testate e degli articoli pubblicati. So però che i ragazzi che ci lavorano dentro (una ventina per ogni redazione scolastica) ci mettono voglia, passione e tempo, e portano a casa una maggiore confidenza col testo stampato e la strana idea che si possa esprimere quel che si pensa, e, ancor prima, che si debba pensare qualcosa.
Ma la cosa straordinaria è quest’uomo, che segue da trent’anni il mondo dei giornali d’istituto piacentini, il prof. Schinardi, splendido settantacinquenne che io ricordo come insegnante di italiano e latino di mio fratello, all’epoca adolescente pseudorivoluzionario da salotto (ehm, ciao Vito) ma letteralmente invaghito di questo strano prof che in un’epoca di alternatività obbligatoria e di conformisti controcorrente riusciva a far amare la letteratura italiana a chi reclamava il sei politico. E adesso che è in pensione è ancora lì che non molla, che coordina, motiva, spinge e organizza. Ce ne fossero, ancora.

Gli obiettivi di apprendimento relativi alla scrittura in lingua italiana al termine della scuola primaria, come elencati dalle Indicazioni per il curricolo – 2007, non sono alla portata di un buon 50% degli utenti dei social network. E sono stato basso.

Paasilinna, Piccoli suicidi fra amici.
Ho imparato che per Paasilinna il suicidio è irragionevole, sempre. La vita è cambiamento, mutamento, variare di circostanze. L’attimo che viene può portare con sé occasioni e incontri che rendono meno rilevante quanto è accaduto prima. Perfino tentare il suicidio può rivelarsi fonte di cambiamento ed essere la circostanza attraverso la quale la vita cambia. Il suicidio è un’impennata della volontà, ha senso se hai deciso che sei tu che decidi. Ma è una decisione, appunto. E come per quelli che dicono oh, insomma, io la penso così, mica è detto che se lo pensi, se lo decidi, sia vero.
Paasilinna descrive una specie di TripAdvisor dei posti d’Europa dove è più figo suicidarsi, ammesso che lo si voglia fare in massa e in modo spettacolare, tipo lanciandosi nel vuoto dentro un pullman. Il must pare essere Capo Nord. A giudicare dalle foto c’è andato in vacanza mezzo Feisbuc. Coincidenze? Mah.
In subordine vanno fortissimo i burroni delle Alpi svizzere, ma anche l’Algarve non è male, in faccia all’Atlantico, alla Fortaleza de Sagres.
E poi ho imparato che Il portoghese deriva dal tardo latino, e il sami dal bramito delle renne.

Regio Decreto 1054 del 6 maggio 1923. Un pezzettino di riforma Gentile: si decide che presidi e professori vadano in pensione a 70 anni. L’aspettativa media di vita alla nascita era di 51,1 anni. ‘Na truffa. L’Inps doveva essere miliardario.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 13

Cool as the other side of the pillow. Che bello. È un’espressione che non conoscevo, e mi piace tantissimo. Mette insieme un modo d’essere che mi è lontano mille miglia (non so cosa caspita significhi, davvero, essere cool, ma sono sicuro che non mi riguarda) con un’immagine che invece mi riporta con la memoria a un’epoca in cui manco sapevo che esistesse l’aria condizionata, e la val padana offriva estati sudate e appiccicaticce anche senza bolle africane, e comunque ero in vacanza, e il giorno dopo non c’era scuola, e andavo a dormire tardi, e nel letto mi giravo e rigiravo per il caldo, e mi stupivo del come fosse possibile che il semplice voltare il cuscino dall’altra parte portasse con sé quel dono di frescura, breve ma sufficiente a farmi prendere sonno, e mentre giravo gallone mi chiedevo come fosse possibile che l’altro lato del cuscino fosse sempre un po’ più fresco del zzzzzzzz……

biscotti del Lagaccio, per fare colazione, sono un grosso non so, non so.

A paragone della riforma Moratti e del lavoro di Bertagna & co., l’elaborazione delle Indicazioni per il Curricolo da parte di Ceruti e tutto il pensiero di Morin mi paiono parecchio banali, di una banalità filosofica ancor prima che pedagogica. Metto le mani avanti: è la mia prima reazione, a caldo. Ma è fortissima l’impressione di un voler correre dietro alle mode globaliste dell’epoca (2006-07) e ad un certo volemosebbenismo piuttosto diffuso nella ex sinistra Dc e nella Margherita del ministro Fioroni, ma anche a tutta l’area dell’Ulivo e alla sinistra bertinottiana che poi finirà in Sel.
Trovo debolissima l’insistenza di Morin sulla “frammentazione del sapere” come male per eccellenza (e in particolare, come ti puoi sbagliare, il male starebbe nell’iperspecializzazione del sapere scientifico), e trovo a dir poco semplicistica la proposta, come rimedio, di ricostruire una visione globale della conoscenza che in fondo sarebbe un semplice rimettere insieme i cocci del sapere che s’è rotto, in un’operazione che, nel mentre che opera di Attak, evidenzia e lascia sussistere la separazione avvenuta – proprio come sul vaso rappezzato si vedono benissimo le crepe e le sbavature di colla – , e allora perché ostinarsi a biasimarla? Il giochino della cultura è da mo che s’è rotto, caro Morin, fattene una ragione. Indaghiamo semmai sulle ragioni e su quel che ne è venuto fuori, ma indietro non si torna, mai.
In sovrappiù, non sapevo che l’espressione Nuovo Umanesimo fosse appunto del Morin. Tendevo ad attribuirla a Fissore, unico vero maître à penser di questi nostri tempi bui.

Mentre i nostri musei vengono affidati a mani straniere, il padovano Piero Benvenuti viene eletto segretario dell’IAU, l’Unione Astronomica Internazionale, l’organizzazione che, come dice il Corrierone nostro, dà i nomi alle stelle. Ma – e questo l’ho imparato oggi – dice Benvenuti che non ci sono più stelle da nominare. Che al massimo ci sono gli asteroidi e, come ovvio, i pianeti extrasolari, qualche satellite non ancora avvistato e certo la miriade di oggetti ghiacciati delle varie fasce e nubi che si estendono al di là di Plutone, lo sterminato Molise del sistema solare. Ma stelle no, le abbiamo nominate tutte.
Ecco, questa è una cosa che mi lascia senza parole. Nominare le stelle era attributo divino: Prova a contare le stelle del cielo, Abramo, e tale sarà la tua discendenza. E quando Giobbe prova ad alzare la cresta, il Signore lo mette a posto dicendogli: Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione? Insomma, intorno al nominare le stelle ruota l’immenso Stacce! dell’Onnipotente rivolto alla sicumera dell’ambizione umana alla conoscenza.
E invece, abbiamo davvero nominato le stelle. E quindi?
Leopardi se lo chiede, se per caso il nominar le stelle, indice di potenza umana sovrumana, potrebbe significare di per sé essere più felici:

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.

Oggi, noi che abbiamo noverato le stelle e che le abbiamo battezzate tutte, possiamo rispondere  tranquillamente al dubbio del pastore errante.
… pastore, magna pure tranquillo.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 12

Bertagna. Non è propriamente un Carneade, almeno in ambito scolastico. Ma per tutto il resto del mondo: chi caspita è Giuseppe Bertagna?!
Giuseppe Bertagna è quel povero Cristo che si è trovato a presiedere il gruppo di lavoro incaricato di  stendere le basi pedagogiche e culturali della Riforma Moratti.
Ah, bella roba!, mi pare di sentirvi. Eppure, eppure.
Oggi ho imparato qualcosa che sapevo confusamente, che mi ronzava per il cervello, ma che se non mi capita, come è capitato oggi, di doverci perder su qualche mezzorata di lavoro non si traduce mai in una consapevolezza piena. E così, prima lo pensavo, ma adesso ce lo so.
Oggi ho imparato che, per dirla in linguaggio strettamente tecnico-pedagogico: la riforma Moratti era una figata. Spaccava il culo ai passeri. Riforma Moratti rulez.
C’era, nella riforma Moratti, una sapienza e una capacità di armonizzare cultura pedagogica e filosofica, concezione della persona e innovazione didattica, astrattezza teorica e concretezza educativa, recupero della tradizione e visione rivoluzionaria davvero uniche nella storia della scuola italiana. Un’operazione culturale di altissimo livello, della quale Bertagna teneva le fila.
Una riforma di razionalità stringente, direi elegante: ridotta all’osso, si tratta di un procedimento in cui l’ideale (il PECUP, il profilo dello studente in uscita) si traduce nella realtà dell’individuazione delle competenze di cui lo studente dev’essere fornito; e queste competenze diventano così gli obiettivi del mio insegnamento, che metto in atto a partire dalla definizione dei singoli obiettivi di apprendimento, espressi in termini di conoscenze e abilità, che mi devono aiutare a costruire quelle competenze, obiettivi che perciò diventano il fine cui tendo progettando le mie lezioni. C’è il tener conto di quel che lo studente è e di quel che deve essere; il tener conto delle capacità che la natura e il suo sviluppo gli forniscono e delle competenze di cui dev’essere in possesso per affrontare autonomamente la vita; e all’incrocio tra questo essere e questo dover essere ci sono io, l’insegnante, l’attività culturale della scuola.
Non c’è più un sapere fisso, calato dall’alto, che io professore ti trasmetto perché sì, perché qualcuno ha deciso che questo sapere ha valore, e ne ha più di quanto valga io o di quanto valga tu, studente; no, adesso ci sei tu, studente, e io, insegnante. Lo scopo è la realizzazione di te. E il sapere che voglio aiutarti ad apprendere dev’essere strumentale a quel che tu sei, al progetto che tu stesso costruisci su di te attraverso il sapere. Perciò non c’è più un programma, ma delle indicazioni: una direzione, che però sta a me e a te tradurre in strada. Nella riforma Moratti, Comenio e Rousseau vengono alle mani, e Comenio le prende di santa ragione.
Peccato. Perché c’è come un gap triste tra il modo in cui questa riforma è stata concepita, il valore pedagogico e culturale del lavoro di elaborazione che l’ha preceduta, lo sforzo di pensiero che l’ha preparata, e quel che invece è stato fatto passare a tutti noi, operatori dell’istruzione e destinatari, utenti o anche solo semplici cittadini dello Stato italiano.
Non vi fu nessun coinvolgimento degli insegnanti, non dico come soggetti di elaborazione (mica balle, non ne abbiano le competenze, quand’anche insegnassimo da ventordici anni), ma anche solo, banalmente, come operai destinati a far funzionare quell’edificio: ben poco si è investito, insomma, sulla formazione degli insegnanti, sul nostro essere davvero consapevoli delle ragioni di quel che ci veniva chiesto di fare, della sua valenza culturale ancor prima che organizzativa o gestionale. In questo lo Stato ha sicuramente fallito, per motivi ideologici, economici, pratici e quant’altro.
Ma noi insegnanti siamo stati corresponsabili. Ci siamo subito accodati a omogeneizzare la riforma al generale contesto di tifo da stadio fra le opposte tifoserie di berlusconiani e antiberlusconiani; ci siamo spaccati dal ridere sulle tre I come se davvero fossero state il centro della riforma; ci siamo abbeverati agli allarmismi dei sindacati (oh, anche allora era stata uccisa la scuola pubblica, mica solo oggi, altro che walking dead, ‘sta scuola pubblica continuiamo ad ammazzarla e a tirarla su since 1923, e tutte le volte, di fronte a una nuova riforma, ci troviamo a difendere a spada tratta quello che fino a dieci minuti prima definivamo un cadavere); dai sindacati abbiamo accettato di buon grado la tranquillizzante tutela dei diritti acquisiti di chi era nelle graduatorie ad esaurimento ed il sistematico sabotaggio delle SSIS, alcune certo capaci di sabotarsi da sole, ma altre, in quegli anni, capaci di porsi come unico tentativo credibile di dare una reale formazione agli insegnanti, di renderli consapevoli del loro lavoro, di far loro sollevare lo sguardo dal programma, dal libro di testo e dalla lezione.
Dietro la riforma Moratti c’era un lavoro culturale enorme, di cui chi non è addetto ai lavori non conosce che una minima parte. Un po’ perché quasi nessuno si è interessato di farci vedere di più, per calcolo, per necessità, perché non ci sono i soldi per l’aggiornamento e la formazione, per spocchia, per stupidità; un po’ perché, ammettiamolo, di pedagogia e didattica gliene frega niente a nessuno, in primis agli insegnanti, figurarsi al pubblico di tv e giornali, e per il resto del mondo la scuola è quella roba che serve a dare un diploma a mio figlio e bon basta; ma un po’ anche perché siamo stati noi insegnanti a non aver voluto e a non voler vedere di più, perché in fondo in fondo molti di noi sono tuttora convinti che il nostro lavoro sia quel qualcosa che accade in aula dalle 8.00 alle 8.55 tra noi, il nostro testo e quei baluba che abbiamo davanti, e una volta che è suonata la campanella tana liberi tutti. Non dite balle, li conoscete, ce n’è ancora un botto che la vedono così. Gli stessi che poi strepitano se qualcuno dice loro che lavoriamo solo diciotto ore la settimana.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 11

Quando devi fare cinquanta chilometri in bici prima svuota bene la vescica. Fidati.

Riascoltare, dopo, boh, trenta, quarant’anni? Felona e Sorona. Madonna, cheppalle. Rivaluto di molto le Kantaten di Bach (nella versione condivisa da Joshua Heldancor di più).

Reddit è una fonte quasi inesauribile di WTF, ma anche di conoscenze interessanti.
Esempio di conoscenza rubricabile senza dubbio alla voce “fuffa”: avete presente Neil Armstrong? Bene. Lo sapevate che Neil A., letto al contrario, è Alien? Eh. Coincidenza? Mah.

È invece più intrigante venire a sapere che esiste (anzi, è esistito) un singolo essere vivente che probabilmente ha avuto, da solo, un effetto decisivo sull’intero ecosistema del mondo mondiale globoterracqueo come nemmeno tutti gli altri fantastilioni di esseri viventi messi assieme. Eccheccosa sarà mai stato, ‘sto essere? Un batterio? Un microorganismo? L’omino del cervello di Einstein? Macchè.
Thomas Midgley, Jr.
Questo signore, lui da solo, è all’origine di due ideuzze geniali, subito messe in pratica e diffuse per il mondo affinché tutti potessero goderne: la prima, il piombo tetraetile come antidetonante per la benzina; la seconda, il diclorodifluorometano come gas refrigerante e propellente. Et voilà, bromuro di piombo come se piovesse e buchi nell’ozono per tutti. Morto nel ’44, probabilmente mentre gli stava girando in testa un’ideuzza a proposito dei possibili usi dell’uranio 235 e del plutonio.
Ah, ingegnere e chimico, mica un umanista (gnègnègnè).

Il pacioso ed innocuo Th. Midgley
Un progetto giovanile di Midgley, rimasto purtroppo inattuato

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 10

Il Carneade di oggi è Granovetter.
Uff, no, non l’avevo mai sentito. Sì, sono ignorante. Proseguiamo.
Allora. Una frase come Che poi stanno sempre su Internet, ci hanno un sacco di amici su Feisbuc, oddio, “amici”, loro dicono “amici”, ma amici VERI, legami VERI, rapporti VERI non ne hanno mica, ecco, questa è  senz’altro una delle frasi più diffuse e ripetute nelle aule insegnanti del regno, pronunciata pensosamente durante i consigli di classe, proferita scuotendo il testone in sincrono col collega di fronte alla macchinetta del caffè o anche sbattuta in faccia agli stessi interessati, i ragazzi, col gusto di spiegar loro come (non) funziona la (loro) vita a paragone di quando invece noi.
Confesso, l’ho detto anch’io. E non una volta sola. Perché del vero c’è, eh. Caspita, se c’è. Del resto è un luogo comune, e i luoghi comuni diventano comuni perché qualcosa di vero dicono, altrimenti non diremmo che sono luoghi comuni, ma, semplicemente, puttanate.
Tuttavia, è un luogo comune, quindi parziale.
I ragazzi non hanno legami veri. Legami forti, diciamo.
A parte che, mi si consenta, cosa caspita vuoi mai sapere tu di quali legami abbia o non abbia il ragazzino del terzo banco a sinistra, e se ‘sti legami siano forti, deboli o discretamente robusti.
Ma poi, cosa sono i legami forti?
Legami forti sono quelli che ho con chi mi è amico. Coi miei familiari. Coi miei più stretti collaboratori. Persone con le quali ho profondi legami affettivi, o con le quali condivido uno stesso modo di vedere il mondo, di lavorare o anche solo di cazzeggiare.
Ora, con queste persone accade che io ti parlo, tu mi parli, ma in fondo non ci diciamo nulla di nuovo. Non ci attendiamo nulla di nuovo. Ci conosciamo, andiamo d’accordo, stiamo insieme per questo, lavoriamo insieme per questo.
Ecco, qui entra in gioco il Granovetter, che salta su e dice: occhio, ché se avete gli stessi interessi e condividete le stesse informazioni, gira e rigira va a finire che non vi accorgete delle eventuali nuove opportunità. Vi dite sempre le stesse cose e  non portate a casa conoscenze nuove.
Chi invece ha legami deboli, cioè contatti con persone che conosce in modo relativamente superficiale, interagendo di rado e poco intensamente, amplifica le proprie possibilità di conoscenza. Aumenta addirittura le sue possibilità di trovare lavoro. I legami deboli aprono finestre su realtà sconosciute, che possono risultare inquietanti ma anche proficue.
Ai fini dell’imparare, perciò, una rete di legami deboli offre più stimoli e possibilità di una rete di legami forti. Nasce il connettivismo, una teoria che sottolinea appunto il valore e la funzione delle connessioni nei meccanismi di apprendimento. E i nostri studentelli hanno nel web un’opportunità di apprendimento pazzesca, ancor più che una fonte di pericoli e di distrazione.
Ecco, che questa cosa uno l’abbia potuta teorizzare (venendo subito preso a pescioni in faccia) non quando è stata lanciata Facebook, e nemmeno quando sono saltati fuori i newsgroup, ma all’inizio degli anni ’70, è una roba che mi manda nei matti.

Il giovane Granovetter intuisce la teoria della forza dei legami deboli